In Sardegna, di uno che sta con le mani in mano si dice: “abarrai con i manusu in gruxi”, che letteralmente vuol dire “stare con le mani in croce”. Di Costantino Nivola, figlio di muratore e noto per la sua sconfinata produzione creativa, non si può certo dire che sia rimasto con le mani in mano. Anzi, le mani le ha usate insieme alle sabbie, alla calce, al gesso, alle pietre che ha scolpito, oltre a tutti gli strumenti classici di un art director e pittore che dalla sua amata Orani, in provincia di Sassari, è arrivato a New York per creare delle opere di rara bellezza.


La storia di Nivola incuriosisce per l’incredibile sequenza d’incontri con esponenti del mondo della cultura, dell’arte e dell’architettura e per le vicende personali che lo costringono ad abbandonare l’Italia in preda al delirio delle leggi razziali insieme a Ruth Guggenheim, tedesca di origine ebraica, sua compagna di corso all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, sposata nel ’38. Nivola era arrivato a Milano con una borsa di studio dopo aver imparato il mestiere del padre muratore e aver fatto l’apprendista del pittore Mario Delitala a Sassari e provato una carriera artistica indipendente senza grandi riscontri nell’isola.
Alla formazione artistica milanese, dopo il diploma all’ISIA di Monza, segue un periodo come direttore creativo della sezione grafica dell’Olivetti. Dal 1936 al 1938, a Milano sperimenta, grazie alla lungimiranza di Adriano Olivetti, la comunicazione grafica, contribuendo a creare l’immagine dell’azienda con un altro sardo conosciuto nello stesso istituto, Giovanni Pintori. Insieme, producono una serie di manifesti e campagne pubblicitarie fortemente innovative per l’epoca.

Come dicevo, è costretto a scappare prima in Francia e poi negli Stati Uniti, a causa delle persecuzioni razziali e dopo un difficile periodo di adattamento diventa a New York art director in diverse riviste; lavora per periodici di architettura come Interiors The New Pencil Points, che rinnova aprendoli all’influenza del modernismo europeo o per testate di moda (You) e di cucina (American Cookery). In qualità di free lance collabora ad Harper’s BazaarFortune e altre riviste, realizzando fra l’altro, subito dopo la fine della guerra, una serie di reportage grafici sull’Italia.

Come inviato speciale di Fortune torna in Sardegna nel 1952 per documentare gli esiti della campagna antimalarica, lanciata dalla Rockefeller Foundation, con una serie di vivaci tavole a colori pubblicate nel 1953. A New York incontra alcune delle più brillanti personalità creative che contribuiranno non poco a definire anche lo stile delle opere da lui concepite; oltre ai maestri dell’architettura europea che collaborano con Interiors come Gropius, Albers, Breuer, Moholy Nagy frequenta la scena creativa newyorkese dove conosce tra gli altri de Kooning, Kline, Léger, Pollock. Spiccano però tra le sue frequentazioni due personaggi che non hanno certo bisogno di presentazioni: Saul Steinberg, che conosceva già dagli anni di lavoro milanesi, e Le Corbusier con il quale condividerà visioni estetiche e una profonda amicizia dividendo per ben quattro anni lo studio. Nel ’47 torna a Milano dove pensava di trasferirsi ma le condizioni post belliche italiane lo scoraggiano e così nel ’48 compera una casa a Long Island, presso East Hampton, allora ancora abbastanza accessibile, e scopre giocando con i figli sulla spiaggia il sand casting; in pratica la tecnica consiste a grandi linee nell’usare uno stampo negativo ricavato nella sabbia, colando al suo interno un impasto di gesso, sabbia e cemento. Una volta asciutto il manufatto dà forma a un bassorilievo positivo del disegno fatto in precedenza. La tecnica così semplice gli consente di mettere in moto un linguaggio creativo-scultoreo che è prima di tutto grafico. Le forme e i simboli che si possono produrre sono molto semplificati e ne nasce un linguaggio ispirato al post-cubismo di Le Corbusier ma anche a certe forme d’arte centroamericane o africane.

La scoperta di questo linguaggio materico gli permette di realizzare un pannello per lo showroom Olivetti di New York che gli consente una visibilità ulteriore al punto da essere chiamato dalla Harvard University per diventare direttore del Design Workshop. Lo showroom Olivetti sulla Fifth Avenue è un progetto dello studio milanese BBPR (quelli della Torre Velasca) ed è un ambiente ricco di invenzioni dal sapore surrealista: dalle basi-stalagmiti in marmo che sostengono gli oggetti in vendita alle lampade- stalattiti in vetro di Murano, alla grande ruota che unisce il negozio al seminterrato, alla macchina da scrivere collocata fuori, sul marciapiede, a disposizione dei passanti ma è anche lo scenario perfetto per il grande murale dove Nivola diventa a tutti gli effetti lo scultore ideale per l’architettura.

“Il rilievo, lungo 23 metri, è stato realizzato con la tecnica del sand casting e rappresenta una serie di figure semiastratte, divinità che portano nel grembo piccole figure umane e che accolgono il visitatore con ampi gesti di benvenuto. Il grande successo del progetto impone Nivola in campo internazionale come collaboratore ideale per gliarchitetti modernisti, e al tempo stesso sancisce l’affermazione oltreoceano del design e della creatività italiani”. (Citazione Museo Nivola) Fortunatamente il rilievo è ricollocato nel 1973 nello Science Center dell’Università di Harvard, per volontà del progettista Josep Lluís Sert dopo essere stato smontato nel 1969, alla chiusura del negozio Olivetti. C’è un progetto che mi piace raccontare e che si ispira all’arte e alla comunità e che fa tesoro della lezione di etica ed estetica di Adriano Olivetti dove tutto era (peccato usare il passato!) pensato per mettere l’uomo al centro. “Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”, ebbe modo di dire e pensò alla comunità come primo nucleo dello stato democratico, come a un insieme che può essere migliorato anche grazie all’arte e all’estetica messa a disposizione di tutti per migliorarne la vita. Anche per Nivola “a partire dagli anni Cinquanta i temi della comunità, della partecipazione e condivisione acquistano importanza, generando opere profondamente innovative, come il “Pergola village” (1953), un progetto per collegare tutte le case di Orani per mezzo di pergole, e la mostra all’aperto allestita per tre giorni sempre a Orani nel 1958, nella quale il coinvolgimento dei paesani era parte integrante del progetto. In queste opere, al di là della scultura o della pittura, il vero centro del lavoro è la vita collettiva, i rapporti sociali” (Museo Nivola). Mi piace pensare che dietro all’opera di una mente così prolifica ci sia l’uomo che vede nella bellezza semplice, quella della materia grezza, la pietra o la sabbia, la possibilità di “scrivere” qualcosa che resti per molto tempo scolpito nella memoria collettiva di un luogo o di un gruppo di persone. E mi piace pensare che ci siano linguaggi grafici che a volte usano pennelli così grandi da tracciare linee e figure che rappresentano, come nell’arte grafica, l’essenza del messaggio. Credo che in un’epoca in cui si fa un gran parlare di intelligenze artificiali, che ritengo utili per fare progredire un certo tipo di scienze e di cui non temo la concorrenza nel nostro lavoro, mi piacerebbe vedere qualcun altro con la stessa forza creativa che, rimboccandosi fisicamente le maniche, produca con le “proprie” mani delle opere grafiche così potenti ed espressive. In attesa di scoprire un nuovo Nivola, per chi dovesse programmare un viaggio in Sardegna consiglio di visitare il Museo Nivola a Orani, in provincia di Nuoro, che conserva la più importante collezione al mondo dell’artista.

Courtesy: Museo Nivola, “Alle radici della comunicazione visiva italiana” (H.Waibl).

Leggi l’articolo su Touchpoint di Giugno | 2024 n° 05