Quella di Remo Muratore è un’altra bella storia che si intreccia con alcuni momenti fondanti per la cultura grafica del nostro Paese. Originario di Chieri, si laurea in Architettura al Politecnico di Milano e frequenta la Scuola Superiore d’Arte Applicata all’Industria del Castello. Inizia l’attività di grafico nel 1935 acquisendo presso l’Istituto Grafico Bertieri un’approfondita conoscenza tipografica e collaborando con la rivista Risorgimento Grafico. Negli stessi anni, come abbiamo visto in qualche numero addietro, nasce lo Studio Boggeri e cominciano ad arrivare in Italia i primi grafici internazionali come Schawinsky, che portano la loro cultura estetica e le tecnologie applicate alle arti grafiche e fotografiche tipiche del lavoro di ricerca del Bauhaus.

Non è un caso infatti se anche Muratore, a un certo punto, nel 1938 comincia la sua collaborazione con lo Studio Boggeri dove, grazie alla sua esperienza nel disegno dei caratteri e alla sua formazione come architetto, realizza cataloghi, marchi e allestimenti fieristici. Presso lo Studio Boggeri, in quegli anni, realizza vari e importanti lavori e soprattutto conosce Xanti Schawinsky, Max Huber, Albe Steiner, Luigi Veronesi ed Erberto Carboni. Come Steiner e Veronesi comincia a coltivare l’idea di una comunicazione a servizio della comunità in grado di condividere i valori e sposando l’idea di modernità della tipografia che in quegli anni era tronfia delle immagini e della retorica del Ventennio fascista. Dal 1943 al 1945 partecipa attivamente alla lotta partigiana nell’Oltrepò pavese e dopo la liberazione, nel 1947, con Huber, Steiner, Veronesi e altri avvierà presso i Convitti Scuola della Rinascita i corsi per grafici pubblicitari. Nei due anni successivi alla liberazione c’è in Italia un fermento creativo e una voglia di chiudere i conti con il passato fissando però nella memoria europea l’attività svolta dalla Resistenza italiana. Accanto alla rinata industria cinematografica milanese che con opere di denuncia come Achtung! Banditi di Carlo Lizzani o Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, Geo Agliani, che dei film precedenti era il produttore, chiese a Remo Muratore di seguire la realizzazione della grande Exposition de la résistance italienne di Parigi (tra il 14 e il 26 giugno 1946).

Si trattava di un progetto quasi monumentale di 140 pannelli, voluto dal CLN e dal CNR francese, che intendeva raccontare la Resistenza italiana attraverso una prospettiva nazionale. Le vicende che precedettero e seguirono la realizzazione della mostra di Parigi sono sintetizzate in una relazione firmata da Remo Muratore, che lavorò all’allestimento. Di questa mostra, che venne sospesa e rinviata dal governo francese, vengono allestite varie mostre in Italia, in Svizzera e a Praga, però dei pannelli si erano perse le tracce dopo che erano stati affidati dal Comando generale del Cvl all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Nel settembre 2001, effettuando il trasloco di sede, le casse contenenti i pannelli vengono rinvenute e i materiali, restaurati nel 2005 in occasione del 60° anniversario della Resistenza italiana, vedono nuova luce in una mostra promossa a Milano con il titolo “La mostra ritrovata”.

I pannelli sono quelli originali scritti in francese e fatti di immagini e di collage che raccontano i momenti salienti del percorso sofferto di un Paese che ha visto i propri civili e militari combattere le forze di occupazione nazifasciste nel Nord Italia e nelle città del Sud per la liberazione. Muratore, come Veronesi o Steiner, sapeva bene di usare un mezzo di comunicazione propagandistico come era avvenuto con il precedente periodo fascista però si riconosceva in un linguaggio molto più sintetico, spoglio e privo dell’enfasi da “regime” che aveva connotato il Ventennio. Anzi sembra addirittura che la forza dei contenuti fotografici che mostrano la crudezza dei fatti venga lasciata scarna e con pochi elementi grafici di contorno. Prevalgono i colori neri e il rosso mentre i caratteri tipografici sono lineari e bold.

Si direbbe un’estensione dei messaggi puliti e sintetici visti negli anni ’30 a opera della scuola del Bauhaus, con però una forza espressiva più spontanea. Quella di Muratore è una figura di sperimentatore ed educatore che continua negli anni ‘60 realizzando per il Piccolo Teatro di Milano i manifesti più riusciti per equilibrio e rapporto tra foto e caratteri. Ha insegnato all’Istituto d’Arte di Parma e poi all’Accademia di Belle Arti di Ravenna dove qualche anno fa Mara Campana e Massimo Casamenti hanno curato una mostra con oltre duecento lavori, originali e in gran parte inediti, che sono poi entrati a fare parte delle raccolte grafiche della Biblioteca Classense che ha ospitato la rassegna.

Una frase su tutte, che oltre a essere uno dei titoli di uno dei suoi libri racconta Muratore nel suo percorso di sobrietà estetica e di impegno civile: “Io, come grafico cerco di evitare il grafismo”.

Courtesy by www.milanolibera.it/storie/la-mostra-ritrovata/

alle radici della comunicazione visiva italiana, heinz waibl.

La grafica italiana del ‘900, carlo vinti.

www.archiviograficaitaliana.com

www.campografico.org/journal/5-1938

museum für gestaltung zürich emuseum

foto: Uliano Lucas

Leggi l’articolo su Touchpoint di Marzo | 2025 n° 02

Per presentare Xanti Schawinsky ho usato lo stesso titolo di un saggio pubblicato in “Mapping Graphic design History in Switzerland” a cura di Robert Lzicar Davide Fornari, (Triest Verlag, Zürich 2016) e tradotto per l’occasione dai “ragazzi” di Via Zuretti 35, di Parco Gallery. Credo sia il modo migliore per introdurre uno dei giganti della grafica internazionale del secolo scorso che con la sua opera, nel periodo italiano tra le due guerre, ha contribuito a svegliare e rendere moderno uno stile che viveva della rendita degli esperimenti tipografici del Futurismo italiano.

Stiamo parlando di una figura artistica che ha attraversato epoche e confini dimostrando sempre una creatività innovativa e che si è misurata con varie forme d’arte durante tutta la sua carriera. Proviamo a inquadrare attraverso alcune note biografiche il percorso di Alexander “Xanti” Schawinsky: nasce a Basilea, in Svizzera, nel 1904.Compie studi in Architettura e Grafica a Colonia e Berlino. Nel 1924 partecipa all’esperienza del Bauhaus a Weimar e Dessau insieme a W. Gropius, W. Kandinsky, P. Klee, J. Albers, O. Schlemmer e László Moholy-Nagy, implementando le sue conoscenze fotografiche e tipografiche. Si fa notare per il suo lavoro d’avanguardia nel laboratorio teatrale di Oskar Schlemmer al Bauhaus, dove realizza le sue prime danze e spettacoli di pantomima.

Come incipit biografico non è male pensando che Xanti si è trovato a condividere un percorso artistico con alcuni dei più grandi geni del secolo scorso ma le note biografiche non si limitano alla sua formazione e continuano descrivendo una persona in perenne movimento.

Infatti quando il Bauhaus di Weimar chiuse nel 1925, Schawinsky si trasferì a Dessau con la scuola, che riaprì come istituzione municipale nella primavera di quell’anno. Nella nuova sede, gli fu dato uno studio nell’ex galleria d’arte. Lì, per conto del Bauhaus, preparò la ricostruzione del laboratorio di scenografia e rivitalizzò la Bauhaus-Kapelle, fondata nel 1924 da Andor Weininger a Weimar, dove suonava anche il sassofono. Allo stesso tempo, Schawinsky si dedicò alla pittura libera e alla fotografia sperimentale. A causa dell’ostilità politica e razzista, da Magdeburgo alla fine del 1931 si trasferì a Berlino. Lì, lavorò come artista e grafico freelance, collaborando a progetti architettonici ed espositivi con i suoi amici Walter Gropius, Herbert Bayer e Marcel Breuer. Dopo che i nazisti salirono al potere, Schawinsky emigrò in Italia, dove, dalla fine del 1933 al 1936, lavorò come grafico freelance per lo Studio Boggeri di Milano e per varie aziende italiane, tra cui Illy Caffè, Cinzano, Motta e Olivetti. Nel ’36 emigrò negli Stati Uniti, dove insegnò come professore di teatro al Black Mountain College, una leggendaria scuola d’arte della Carolina del Nord che aveva accolto molti migranti. Lì incontrò molti dei suoi colleghi del Bauhaus. Schawinsky sviluppò ulteriormente il suo primo concetto di teatro sperimentale chiamato “Spectodrama”, che combinava tutte le risorse drammatiche di base in una scenografiamultimediale, come spazio, forma, colore, luce, movimento, suono, linguaggio e musica. Una forma artistica anticipatrice dell’happening, resa celebre qualche anno dopo soprattutto da John Cage e Robert Rauschenberg. Inoltre, Schawinsky continuò anche la sua attività di pittore, allontanandosi dalla pittura tradizionale con cavalletto e pennello per concentrarsi sul “Fisico nella pittura” (Schawinsky, 1969). La sua arte divenne sempre più caratterizzata da una metodologia processuale e tecniche performative di creazione di immagini. Ad esempio, creò dipinti ballando su tele stese sul pavimento o guidandole sopra con la sua auto. Con l’auto, capite?!

Ricordo uno spot pubblicitario di qualche anno fa in cui una bellissima auto coupé riempiva uno spazio bianco di tracce con gli pneumatici coperti di vernice colorata. Si trattava di una citazione o di un plagio? Propendo per la prima ipotesi dato che la stessa azienda aveva permesso ad Andy Warhol tra i tanti altri, di interpretare un modello della loro produzione dipingendolo con il suo stile pop. Fermiamoci un attimo e ritorniamo agli anni di Xanti in Italia a Milano con lo Studio Boggeri e come freelance.

Schawinsky, quando arriva a Milano, ha alle spalle tutta la cultura e la sperimentazione del Bauhaus e quindi padroneggia la razionalità estetica tipografica e le sperimentazioni fotografiche di Mooly-Nagi. Sono anche gli anni in cui Campo Grafico propone analoghi lavori di ricerca da parte di grafici italiani. In questi anni, Schawinsky ha l’opportunità di lavorare per le migliori aziende italiane ma anche, e qui la cosa si fa strana, con il regime fascista di Mussolini. Per uno che doveva scappare in continuazione per le leggi razziali naziste (lui svizzero tedesco di famiglia ebrea polacca) e poi italiane (infatti emigrò negli Stati Uniti nel ‘36) è piuttosto curioso. Il periodo italiano di Schawinsky ha lasciato in eredità, oltre a importanti lavori grafici come la bellissima immagine per Illy, un seme che ha ibridato la nascente cultura grafica italiana.

Sono gli anni in cui la “scuola” internazionale del Nord dà vita alla “scuola milanese”, una scuola svizzera all’italiana che troverà negli anni ’50 il suo punto più alto con l’arrivo a Milano di importanti figure “nordiche” principalmente svizzere come Max Huber o Lora Lamm. Curiosamente a loro volta contaminati da una cultura visiva meno rigida rispetto a quella svizzera al punto da non essere più considerati, in alcuni casi, dai loro connazionali come artisti svizzeri. Hans Höger nella mostra “Zürich-Milano” descriveva Huber, per esempio, (quello del manifesto per le “500 Miglia di Monza”) come un designer che difficilmente poteva essere considerato svizzero al punto da non essere nemmeno menzionato in “100 Jahre Schweizer Grafik”, il cui scopo era celebrare la grafica svizzera. Di Xanti Schawinsky ci sono opere e tracce del suo passaggio creativo nei più grandi musei di arte moderna e una bellissima fondazione che ne cura l’archivio delle opere e le esposizioni internazionali. Merita di essere visto il sito ufficiale www. schawinsky.ch.

COURTESY: WWW.SCHAWINSKY.CH | ROBERT LZICAR E DAVIDE FORNARI, TRIEST VERLAG, ZÜRICH 2016, SWISS STYLE MADE IN ITALY: GRAPHIC DESIGN ACROSS THE BORDER. WWW.ARCHIVIOGRAFICAITALIANA.COM
DAVIDE FORNARI, PARCO GALLERY

Leggi l’articolo su Touchpoint di Febbraio | 2025 n° 01

Di Marcello Dudovich, grande artista triestino, di nascita e milanese di adozione, vissuto tra il 1878 e il 1962, ho già parlato in un precedente numero di Touchpoint Magazine, ma penso valga la pena di riparlarne perché grazie alla mostra del MIC – Museo Interattivo del Cinema, emerge un inedito percorso artistico che merita di essere scoperto. Al MIC di Milano dal 23 novembre 2024 al 9 marzo 2025 c’è una interessante mostra dal titolo “Marcello Dudovich, Unfinished – Cinema, 1915- 1933”, prodotta e realizzata da Cineteca Milano e a cura di Matteo Pavesi: un viaggio attraverso una preziosa selezione di manifesti e rarissimi bozzetti dell’era del cinema muto, molti dei quali realizzati dal grande artista noto soprattutto per essere stato uno dei più importanti cartellonisti e pubblicitari italiani del Novecento oltre che un ottimo pittore.

Di fatto il percorso che mostra l’interazione tra l’arte del cinema, definita dal critico Ricciotto Canudo nel 1921 come la settima arte, prevedendo che la cinematografia avrebbe unito in sintesi l’estensione dello spazio e la dimensione del tempo, è anche un viaggio tra l’arte del cinema stessa e la sua promozione pubblicitaria. L’aspetto interessante della mostra è che ci sono rarissimi bozzetti che probabilmente dovevano essere
le illustrazioni per altrettanti cartelloni pubblicitari di altrettanti film ormai scomparsi. Alcuni di questi sono di Dudovich mentre altri portano la firma di Alfredo Ortelli, Giovanni Vianello, Tito Corbella, Filippo Omegna ed Enrico Sacchetti, mentre i rimanenti non hanno alcun segno distintivo che li possa ricondurre a un autore specifico. Il lotto è composto da 26 bozzetti di dimensioni medie 60×40 cm. In alcuni casi, nel retro del bozzetto, troviamo altri disegni, schizzi di altri soggetti, come se fossero tavolozze di lavoro. Nella parte inferiore, talvolta, compare la firma del disegnatore. Nella prefazione al catalogo, edito da La vita felice e di cui pubblichiamo uno stralcio, Matteo Pavesi, Direttore di Cineteca Milano e curatore, presenta così la mostra:

“Nelle raccolte non filmiche di Cineteca Milano c’è un lotto di grande interesse legato a bozzetti e disegni preparatori di film del periodo muto degli anni Venti. La caratteristica principale di questi bozzetti, a tecnica mista e acquarello, è che non riportano il titolo del film, né della produzione e pertanto si collocano in una zona indefinita di lavori incompleti, non finiti, la cui identità storica risulta indecifrabile”.

E ancora:

“Sicuramente questi materiali sono, o avrebbero dovuto essere, manifesti per il cinema, e il cinema di cui parlano è il cinema muto degli anni Venti di cui gran parte si è persa nel tempo. È anche sì vero che in molti casi il bozzetto è l’unica testimonianza di un film che non c’è più ma, non riportando alcun titolo o regia, questo oggetto non è più da intendersi come bozzetto di una successiva opera, quanto come unico testimone di un genere cinematografico, di una cultura dell’immagine in movimento oggi scomparsa”.

Tra le curiosità in mostra c’è un disegno preparatorio sul retro di un foglio che rappresenta uno scimpanzé e siccome Dudovich nel 1923 realizza il famoso manifesto per il cappello Borsalino dove una scimmia sta osservando il cappello cercando di decifrarne l’uso, il tutto ci porta a pensare che settima arte e pubblicità siano stati molto più che semplici viaggiatori nello stesso scompartimento. La mostra è interessante perché “racconta” anche episodi artistici lontani ma fondanti per la nostra cultura visiva dove cento anni possono sembrare tantissimi oppure soltanto una manciata; rivedendo nella mostra Metropolis di Fritz Lang mi sono reso conto che le tante citazioni che ha originato, da “The Wall” dei Pink Floyd ad Apple 1984 sono state possibili grazie a un “artista” che ha illustrato condei bozzetti, quello che cineasti o scrittori hanno immaginato con le parole. La parte interessante per chi vuole vedere al di là della superficie è che i bozzetti esposti sono di grandissima qualità e mostrano come a volte l’immagine su carta sia stata parte del percorso creativo totale. Questo è vero anche quando, grazie alle moderne tecniche di riproduzione, si sarebbero potuti utilizzare i frame dei film, preferendovi l’illustrazione (acquerello, acrilico) come nel caso di Ercole Brini, grafico e illustratore, che ha creato le immagini di lancio di manifesti celebri: Ladri di bicicletteVia col ventoColazione da Tiffany, per esempio. La mostra “salva” grazie ai bozzetti le pellicole ormai perdute e ci permette un po’ di immaginare partendo da una sola immagine un film tutto da girare. Un po’ come accadde con il grande progetto pensato ma mai portato a termine da Federico Fellini, Il Viaggio di G. Mastornadetto Fernet, secondo Vincenzo Mollica “il film non realizzato più famoso della storia del cinema” che grazie a Milo Manara, amico e ammiratore del grande regista, ha preso vita da uno storyboard dello stesso Fellini diventando una storia a fumetti.

COURTESY: MIC – MUSEO INTERATTIVO DEL CINEMA, CURATORE MATTEO PAVESI, DIRETTORE DI CINETECA MILANO.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Dicembre 2024 | Gennaio 2025 n° 10

Immaginiamo per un attimo che i migliori creativi internazionali del momento si trovino tutti o quasi a lavorare nella stessa agenzia e in una città internazionale.

Il pensiero correrà a New York o a Londra e a nessuno verrà in mente di immaginare che Milano nel decennio precedente allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fu
in grado di attirare i migliori creativi d’oltralpe grazie a una struttura, lo Studio Boggeri, che fu la culla di un momento creativo in cui la “scuolasvizzera” si ibridò con la nascente cultura estetica e industriale mediterranea. In “Mapping Graphic Design History in Switzerland”, a cura di Robert Lzicar e Davide Fornari, Triest Verlag, (Zürich 2016), c’è una bellissima analisi dal titolo evocativo: “Swiss Style Made in Italy: Graphic Design across the Border” in cui si sottolinea come il 1933 sia stato l’anno che influenzò maggiormente la grafica italiana grazie alla nascita della rivista Campo Grafico ma anche e soprattutto per l’apertura
da parte di Antonio Boggeri, della sua agenzia. Nello stesso tempo in cui Albe Steiner iniziava la sua carriera, Alexander Schawinsky emigrava in Italia e Antonio Boggeri, che era stato il direttore della Alfieri e Lacroix, apriva uno studio dal profilo internazionale ispirato ai valori del Bauhaus. Sempre nel ’33 si apre a Milano la Quinta Triennale e il padiglione tedesco presenta un padiglione ispirato alle arti grafiche e da un commento di Edoardo Persico emerge che: “soltanto la mostra tedesca, che si limita a saggi di grafica, e la mostra svedese […] sono al corrente del gusto europeo.

Basterebbe notare come la composizione tipografica si vada orientando, in Germania, verso equilibri e ritmi che esistono indipendentemente dal contenuto dello scritto, per capire come questo espressionismo grafico si accordi al gusto più vivo dell’arte moderna”.

Inutile dire che un’altra ragione per cui Milano divenne un polo d’attrazione è che, nel frattempo, in Germania il regime nazista stava demolendo la cultura estetica considerata non conforme (la Bauhaus cessò l’attività nel settembre del 1932) e perseguitando i primi artisti grafici di origine ebraica che emigrarono negli Stati Uniti, in Svizzera o come Alexander “Xanti” Schawinsky in Italia. Il suo arrivo fu il primo esempio della diaspora della conoscenza sviluppata al Bauhaus. L’uso del fotomontaggio da parte di László Moholy-Nagy e la nuova tipografia sviluppata da Herbert Bayer e altri avevano risvegliato interesse tra i professionisti italiani. Schawinsky trovò sostegno nell’agenzia recentemente fondata da Antonio Boggeri che, oltre ad avere un’apertura mentale internazionale, aveva sviluppato quand’era direttore di Alfieri & Lacroix una serie di esperimenti grafici e fotografici che sfruttavano anche le nuove tecnologie di stampa.

Un imprenditore e direttore creativo completamente nuovo nel panorama italiano che trovò la giusta corrispondenza nel gusto moderno nascente e che per questo venne scelto dalle più grandi aziende manifatturiere dell’epoca. Secondo alcuni la presenza di Schawinsky a Milano compensò l’assenza di scuole di grafica in Italia e attrasse allo studio Boggeri una generazione di giovani grafici italiani, come Muratore, Veronesi, Munari, Castagnedi, Grignani, Nizzoli, Carboni. Analogamente, Schawinsky aiutò Boggeri a esplorare la scena svizzera: andarono insieme a Zurigo nel 1935 per incontrare Hans Finsler, un fotografo e insegnante della Kunstgewerbeschule.

Schawinsky non si limitava a padroneggiare un gran numero di tecniche progettuali e di disegno, ma le introdusse nella cultura italiana del design: l’uso di retini colorati e del fotomontaggio sono due delle influenze più evidenti della breve ma intensa permanenza di Schawinsky in Italia.

A questo punto della narrazione la fucina che crebbe alcuni tra i più grandi talenti creativi come Munari, Nizzoli, Grignani, Carboni diventò il punto di riferimento per una neonata cultura grafica in cui la pulizia e l’ordine estetico svizzero si fusero con il “disordine” espressionista all’italiana che vedrà i risultati più eclatanti subito dopo la fine delle Seconda Guerra Mondiale con le opere di Max Huber, grande interprete di questo mix di culture estetiche. Huber disegnò alcuni dei poster più famosi per il Gran Premio di Monza e tra le tante attività fu l’ideatore della “S” allungata dei Supermercati diventati dopo l’intervento di Armando Testa, Esselunga. Tornando alla storia dello Studio Boggeri una parte del merito della visione imprenditoriale lo si deve attribuire alla “visione” del fondatore o come oggi diremmo al posizionamento innovativo sul mercato italiano del suo studio che consisteva nel riunire in una sola struttura un gruppo di professionisti capaci di gestire la pubblicità dall’ideazione alla produzione. Insomma, un’agenzia ante litteram a servizio completo. Armando Milani, insegnante e grafico di fama internazionale, che con lo Studio Boggeri ha iniziato la sua attività, si stupisce di quanto poco sia conosciuto tra i giovani nonostante l’impronta lasciata dallo studio.

Purtroppo, è vero e credo che una parte della “dimenticanza” sia dovuta all’arrivo della televisione in Italia, di Carosello e delle multinazionali americane che hanno creato un nuovo paradigma della comunicazione facendo, erroneamente secondo me, apparire quanto fatto prima come obsoleto. Riporto un pezzo di un’intervista a Bruno Monguzzi, che da svizzero ed ex collaboratore di Boggeri spiega poeticamente la visione di Boggeri e della sua estetica grafica: 

“Boggeri mi chiama nel suo studio e comincia a raccontarmi una storia di ragni e di ragnatele. E con le sue bellissime mani, le mani più belle che io abbia mai toccato, (era anche violinista!) traccia diverse tipologie di ragnatele nello spazio. Finalmente arriva alla grafica e mi dice che spesso la grafica svizzera è perfetta, ma spesso di una perfezione inutile. Utile, la ragnatela, sarebbe diventata
solo quando infranta dalla mosca. È così, che grazie a lui, è cominciata questa ricerca del senso nel mio lavoro”.

È divertente questa analogia tra i due mondi, quello svizzero ordinato e pulito fatto di linee che si infrangono quando arriva la mosca. Una mosca che si muove, si dibatte, si contorce e prova a rompere l’ordine per liberarsi e a questo punto la domanda che sorge spontanea è: se la mosca che rompe gli schemi e la ragnatela, rappresenta la cultura italiana, il ragno, che passaporto ha?

COURTESY BY: ROBERT LZICAR E DAVIDE FORNARI / MAPPING GRAPHIC DESIGN HISTORY IN SWITZERLAND, TRIEST VERLAG. BRUNO MONGUZZI, LO STUDIO BOGGERI 1933–1981, ELECTA. BRUNO MONGUZZI, LA MOSCA E LA RAGNATELA.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Novembre | 2024 n° 09

E’ il 1966 e Graphis, la più importante rivista internazionale di grafica ed arti applicate dell’epoca, nel numero 126, dedica un lungo servizio ad uno dei più importanti e riconosciuti artisti grafici del secolo scorso: Franco Grignani. Del suo lavoro hanno parlato in molti e sono stati pubblicati molti libri per presentare l’opera così unica e riconoscibile, sia come pittore che come grafico. Del suo lavoro come pubblicitario, partendo proprio da questo spunto di Graphis, ne ho parlato con il nipote Emiliano Camera Grignani che ho contattato e incontrato per farmi raccontare qualche cosa di più della semplice biografia ma soprattutto del suo lavoro di curatore dei lavori del nonno e in particolare di tutte le pubblicità fatte in ventisette anni di lavoro per Alfieri & Lacroix.

Secondo Graphis il lavoro fatto per A&L è un “véritable phénomène” perché l’azienda ha lasciato carta bianca all’artista e Grignani nel suo lavoro di “pubblicitario” non fa riferimento al prodotto in modo diretto (servizio di stampa e fotolito) ma lo allude soltanto interpretando nei vari annunci elementi grafici che richiamano il retino di stampa, mescolando foto in bianco e nero con le sue elaborazioni grafiche oppure utilizzando i caratteri tipografici in modo creativo. Le fotografie in bianco e nero con le loro distorsioni fanno parte di un lavoro di sperimentazione e si inseriscono negli elementi grafici che richiamano l’opera di Grignani creando un effetto moderno ed insolito.

 La “trama” artistica, come viene definita dalla rivista, è unica e appartiene al lavoro di un artista diventato tale dopo aver studiato architettura e dove i moduli matematici sembrano essere alla base della costruzione dei suoi lavori.

Gli effetti ottici delle sue opere in questi annunci per A&L, quando dialogano con le immagini fotografiche, mantengono la relazione cinetica di tutti gli interventi di Grignani. 

Oggi siamo portati a pensare che il lavoro di Grignani potrebbe essere fatto senza molta fatica da qualunque computer ma se contestualizziamo il lavoro portando indietro le lancette dell’orologio agli anni ’60 ci rendiamo conto che è abbastanza difficile trovare nella stessa epoca opere dalla forza grafica così espressiva e innovativa.

Emiliano, in un video che ho trovato molto interessante, racconta attraverso “le iperboliche rivelate”, la tecnica usata dal nonno per la costruzione di alcuni suoi dipinti in grado di disorientare il pubblico.

La tecnica prende spunto da un’idea geometrica, un modulo grafico di base che viene applicato ad un reticolo distorto di linee verticali e orizzontali che generano un effetto sorprendentemente tridimensionale e a volte “vertiginoso”. Delle opere di Grignani non si sono occupati solo grandi personalità del mondo della cultura come Cesare Musatti che nel 1981 ha commentato per Lorenzelli Arte il magnifico lavoro dell’artista ma anche persone che con l’arte apparentemente c’entravano poco, come il fisico nucleare Giuseppe Caglioti che affascinato dalle opere di Grignani ha visto analogie con la fisica quantistica di cui si occupava.

Una curiosità che emerge dal racconto del nipote è che ad ogni struttura reticolare, Grignani aveva attribuito un nome di città e così scopriamo dalla spiegazione che alcuni di questi reticoli hanno nomi di città italiane come Roma o Milano ma anche internazionali come Los Angeles o addirittura in onore della città natale della moglie Jeanne, Melitopol in Ucraina.

Guardando il video di presentazione rilasciato da Emiliano e dopo la sua spiegazione di come si “costruisce” un’opera viene da pensare, come quando vengono svelati i trucchi di magia, che sembri “facile” però dobbiamo immaginare l’artista che dopo gli schizzi preparatori sui foglietti quadrettati realizza a mano su cartoncino e con la tempera le complesse e molteplici forme geometriche che non ammettevano errori e che richiedevano il massimo della concentrazione.

Una volta finito, il dipinto veniva collocato nel soggiorno per essere ammirato e osservato dai familiari ai quali Grignani dava un consiglio che è un consiglio che ho provato anche io a seguire scoprendone il lato interessante: non guardate l’opera soltanto frontalmente, cercate di osservarla con la coda dell’occhio e muovetevi in modo da vedere che a seconda dei punti di vista, le forme statiche acquisiscono una dinamicità e una profondità diversa.

Qualche cenno biografico per inquadrare una figura così particolare: 

la professione del designer nasce dopo la laurea in architettura e la lista degli appuntamenti artistici a cui ha partecipato è sconfinata: è stato uno dei primissimi membri dell’AGI la prestigiosa Alliance Graphique Internazionale. Dal ’65 in poi è stato invitato come ospite negli Stati Uniti presso la Southern Illinois University of Carbondale, membro della giuria alla Biennale de l’Affiche a Varsavia, ha vinto un Leone d’argento alla 36 Biennale di Venezia solo per citarne alcune sue partecipazioni. Le sue opere, oltre a molte esposizioni personali, sono esposte nelle collezioni permanenti al MoMa di New York, al Rijksmuseum di Amsterdam, al MACBA di Buenos Aires, al MACC di Caracas al Victoria and Albert Museum di Londra. 

Grignani è stato uno dei maggiori sperimentatori di fotografia e uno dei più acuti ricercatori sulla percezione visiva e non è classificabile o confinabile nei cluster stereotipati ai quali siamo abituati; è un punto di vista il suo, così unico e personale che mantenendo una coerenza assoluta nel tempo ha creato uno stile artistico che viene sempre di più apprezzato e studiato dai giovani designers in un’ottica di “visual perception” e la sua modernità stupisce e non subisce il limite del tempo. A proposito di modernità, pensiamo alla dimensione di equilibrio di uno dei marchi più originali e longevi disegnato da Grignani, come quello della Pura Lana Vergine che mantiene tutta la forza dello stile di Grignani risultando senza tempo forse perché l’architetto Grignani l’ha costruito con dei criteri classici fatti di rapporti matematici e ottici di pieni e di vuoti come del resto venivano architettati i templi greci che sfruttavano proporzioni auree e i rapporti tra altezze e profondità,  tra vuoti e pieni. 

Ho trovato in rete alcune curiosità come dei tutorial per riprodurre al computer il logo della Pura Lana Vergine e una volta realizzato sembra di vedere l’originale ma (e mi posso sbagliare) credo che nell’originale ci sia qualcosa di meno meccanico di quello ottenuto al computer e la ragione credo stia nella capacità di adattare il logo alle varie misure di utilizzo: non a caso quando si progettava un logo manualmente si adattavano gli spessori alle diverse dimensioni di utilizzo per cui quando il logo veniva preparato per l’utilizzo in dimensioni molto piccole si aprivano in modo impercettibile tutti i tratti in negativo.

L’opera di Grignani viene vista e studiata da centinaia di studenti tutti gli anni nei corsi delle varie accademie grafiche di tutto il mondo; l’aspetto incredibile secondo me di questo maestro della longevità grafica e artistica è proprio legato all’unicità del suo segno che ha rappresentato la sua cifra stilistica cambiando nel tempo ma rimanendo sempre riconoscibile. Una caratteristica molto rara per qualunque artista e che nel lungo lavoro per Alfieri & Lacroix mostra tutte le fasi evolutive di forme, materiali, fotografie stupendo e meravigliando ogni volta il pubblico con risultati sempre nuovi.

Il blog dedicato a Franco Grignani curato dal nipote Emiliano, è un invito alla scoperta e “to disseminate the excellence of the works of Franco Grignani in graphic design among the new generations of students”. Una “mission” che trovo incredibilmente generosa da parte di Emiliano verso coloro che, studenti o accademici, abbiano bisogno di supporto e informazioni sul lavoro sconfinato del nonno, soprattutto in un’epoca in cui mi sembra di percepire un “tutti contro tutti” per sopravvivere (forse) ai segnali inquietanti di una Intelligenza Artificiale che sembra sempre più invasiva nell’arte di copiare e riprodurre i lavori esistenti senza riconoscere l’autorialità delle opere.

Courtesy: Emiliano Camera Grignani

https://www.francogrignani.info/the-full-set-of-ads-for-alfieri-lacroix

https://www.francogrignani.info/the-hyperbolics-revealed

https://www.francogrignani.info/ael

https://www.artsteps.com/view/60ccc2464216e2584a6e43ee

https://vimeo.com/159151519

Leggi l’articolo su Touchpoint di Ottobre | 2024 n° 08

Nel percorso espositivo della bellissima mostra dedicata a Roberto Sambonet alla Triennale curata da Enrico Morteo, ho visto il “viaggio” di un artista, di un uomo, di un grafico e di un designer da un punto di vista insolito: dal mare. Preferisco seguire il filo delle emozioni che ho provato nello scoprire sia il percorso professionale sia quello intimo e personale del navigatore. Il navigatore e pittore che sceglie già da bambino che farà il pittore e che a ragion veduta ha il talento per poter affermare una cosa simile, cresce in una grande casa a Vercelli dove il nonno materno, pittore, decoratore e scenografo probabilmente asseconda il talento
del nipote anche perché sembra che all’età di poco di più di tre anni ritraesse non solo i suoi familiari, ma chiunque passasse per la casa di famiglia.

La passione per la pittura lo portò a consolidare il proprio percorso artistico iscrivendosi nel 1950 al corso di affresco che Achille Funi teneva presso l’Accademia Carrara di Bergamo e partecipando alla esperienza del gruppo dei Picassiani, nonostante avesse già iniziato gli studi di architettura al Politecnico tra il 1942 e il 1945, seguendo i desideri paterni. L’allestimento della mostra mette in luce un’impressionante quantità di “cose” fatte, dipinte, disegnate o ritagliate che mi portano a pensare che Sambonet abbia passato tantissimi momenti della sua vita con un pennello o una matita in mano riempiendo cartoline, tele o block notes di immagini, idee e suggestioni. La mostra si divide in tre fasi, presentando nel percorso il lato dell’artista più conosciuto: quello del designer. Le forme degli oggetti pensati e realizzati nella sua lunga attività sono delle autentiche “invenzioni” che oltre ad aver ottenuto importanti riconoscimenti celebrati con 3 Compassi d’Oro più uno alla carriera, lasciano nella iconografia del design italiano delle forme uniche sia per bellezza assoluta sia per funzionalità come la pesciera prodotta dall’azienda di famiglia, espressione di un raffinato capolavoro di ingegneria, difficilmente imitabile per la complessità dello stampaggio dell’acciaio e oggi in collezione al MoMA di New York.

Tornando all’Ulisse del racconto visivo nel mondo della grafica e dell’immagine ho visto con gli occhi di chi va per mare gli orizzonti mediterranei in dipinti dallo sviluppo orizzontale (la pesciera non è una coincidenza) dai colori spesso sintetici, una striscia di terra a volte scura che taglia due grandi superfici di blu diverso. Mi piace immensamente questo suo girovagare cercando nel viaggio spunti interessanti; lo sono sicuramente i tratti delle foglie o delle piante illustrate durante il suo soggiorno brasiliano.

Questa forza assoluta del segno ottenuta con un solo colore scuro su carte color ocra la si ritrova nei ritratti delle persone che soffrono di disturbi psichici dell’ospedale di Juqueri, a cinquanta chilometri da San Paolo. Ha ritratto le persone e il loro disagio psichico, vestito con un camice da medico e cogliendo la sofferenza e la malattia in modo accennato. Una parte di questo lavoro diventa il materiale illustrato del bellissimo libro “Della Pazzia” realizzato nel ’77 con l’interpretazione grafica di Bruno Monguzzi dei testi di accompagnamento di vari autori da Dino Campana a Michail Bulgakov, da Euripide a William Shakespeare.

La capacità di Sambonet di esprimersi attraverso la ricerca di linee pure e di sintesi estrema nel design lo portano a fare dei progetti grafici di assoluta efficacia; insieme a Pino Tovaglia, Bruno Munari e Bob Noorda, per esempio, progetta il logo della Regione Lombardia prendendo spunto dalla rosa camuna ma disegna anche il logo per la Triennale di Milano usando i cerchi tanto presenti nelle sue opere grafiche. Enrico Morteo, nella sua presentazione della mostra cerca di cogliere il filo conduttore di lavori che sembrano appartenere a personalità diverse dello stesso Sambonet; si chiede come possa convivere il mondo rigoroso fatto di linee essenziali tracciate a china con la leggerezza di opere pittoriche ricche di colore ed energia.

La spiegazione e interpretazione data dalla figlia Maia Sambonet sta in parte nelle immagini fotocopiate in rosso di tanti disegni, foto e progetti che in qualche modo annullano grazie all’unicità del colore le varie forme a tratti spigolose a tratti sinuose del lavoro dell’artista e permettono anche di riconoscere probabilmente un percorso fatto di ricerche e tappe diverse di una vita e di un viaggio alla scoperta di orizzonti unici, per tornare alla figura del viaggiatore-navigatore. Sempre parlando del “viaggiatore” Sambonet, la varietà e unicità che si trova nelle cartoline che ha realizzato, tutte diverse una dall’altra, e spedite ai figli Guia e Giovanni, quando era lontano, cercando di ridurre la distanza, mi hanno fatto pensare al desiderio di questo Ulisse di poche parole di comunicare attraverso elementi visivi a volte diversissimi tra loro (foto, collage, disegni) usando come denominatore comune l’espressività creativa costretta da uno spazio predefinito e obbligato, quello del rettangolo postale.

Non ho parlato per ragioni di spazio dei ruoli avuti da Sambonet con La Rinascente o con la Pirelli, dell’attività come art director della rivista internazionale di architettura Zodiac, della collaborazione con Pietro Bardi, Direttore del MASP di San Paolo, e con sua moglie Lina Bo Bardi, dell’amicizia con Alvar Aalto e di tanti altri, ma posso dire che dal percorso espositivo delle opere fino agli ultimi grandi quadri che mostrano porzioni di mare, la vita di Sambonet è stata caratterizzata da una passione per le cose che ha creato in un movimento creativo che, per energia e varietà, ricorda proprio il movimento continuo del mare e come un novello Ulisse lo ha attraversato guardando sempre a nuovi orizzonti.

Courtesy: Enrico Morteo, curatore della mostra “La Teoria della Forma”. Archivio pittorico Roberto Sambonet, Milano. Casva, Fondo Roberto Sambonet.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Agosto/Settembre | 2024 n° 07

Ho visto arrivare la Milano da bere prima ancora che nei poster di RSCG, a firma di Marco Mignani, dai finestrini del treno che entrava in Stazione Centrale. Avevo il mio portfolio monumentale e cartaceo che mi trascinavo dalla provincia del Nord Est e da poco a Milano si respirava quell’aria da dopolavoro brillante davanti ai primi spritz, in cui tutti ti davano consigli nel bene e nel male sulle agenzie da frequentare. Conoscevo già Milano perché avevo seguito, per alcuni importanti clienti, shooting fotografici o allestimenti fieristici e quindi conoscevo uno dei posti che mi permetteva ogni volta di fare scouting tra libri di grafica e pubblicità: la libreria Salto. Nel seminterrato sulla “circonvalla” interna c’era un autentico tesoro di libri americani, inglesi e tedeschi e tornavo a casa sempre più carico di quando partivo.

Non sapevo però che a pochi metri di distanza ci fosse uno dei migliori ristoranti di Milano e anche uno dei migliori esempi di immagine coordinata totalizzante dove architettura, design e grafica contribuivano a rendere “el Prosper” (il nome del ristorante) uno degli esempi di comunicazione meneghina più coerenti e goliardici in un’epoca in cui i creativi, i grafici e gli architetti vestivano abiti di buona fattura, indossavano la camicia e la cravatta e spesso fumavano la pipa.

Silvio Coppola è stato tutto questo: un architetto capace di mettere il suo talento a disposizione di discipline collegate tra loro da elementi come la creatività, le rigide regole delle proporzioni auree e la ricerca innovativa.

Un po’ di biografia tratta da un articolo a firma di Maria Luisa Ghianda per Doppiozero che mi ha fatto scoprire un lato che non conoscevo di lui: Silvio Coppola nasce a Brindisi nel 1920, ma sceglie Milano per vivere e per lavorare e al suo Politecnico si laurea nel 1957. Membro attivo delle associazioni di design tra le più prestigiose, quali l’ADI (Associazione per il Disegno Industriale), l’Art Directors Club (di cui progetta il famoso logo), l’AGI (Alliance Graphique Internationale), dove ricopre per due anni l’incarico di Vicepresidente, e l’AIGA di New York, è stato il curatore dell’immagine di prestigiose industrie.


Il lavoro di Coppola l’ho incontrato varie volte nel design e nell’arredamento ma non conoscevo questa divertente storia che sta dietro a “el Prosper” e qui devo dire che nella descrizione di Ghianda compare quella Milano che ho intravvisto poco prima di quella “da bere” e che mi piaceva molto di più. “Quando il Prospero era in vena (il che accadeva di sovente, stimolata la sua vena dalle goliardiche richieste dell’appassionata clientela) inscenava un vero e proprio spettacolo di cabaret vestendo i panni di un mordace e verboso sacerdote che predicava in dialetto bergamasco, pronto a dispensare sferzanti omelie all’uditorio, contrappuntate da pungenti analisi socio-politiche sui fatti di cronaca del momento. E quei panni non li vestiva solo metaforicamente, indossava davvero ‘la toniga e ul capèl da prēt’, finendo per somigliare, così abbigliato, al don Camillo di Guareschi interpretato al cinema da Fernandel, proprio tra gli Anni Cinquanta e Sessanta. È indubbio che la cucina de el Prosper fosse una delle migliori della Milano d’allora, ma quelle prediche la rendevano unica e ancora più appetitosa. L’adepto più illustre (però raramente presente in sala perché troppo serio per pender parte alla baldoria) di quella brancaleonica combriccola era Silvio Coppola (1920-1985), il fedelissimo di “don Diego”, progettista dell’immagine coordinata e dell’architettura d’interni del suo mitico ristorante, evolutosi da mescita di vini a tavola calda nel 1882, per poi diventare el Prosper negli Anni Sessanta del Novecento”. A tavola si concludevano contratti o si iniziavano progetti e spesso il luogo era un elemento importante per entrambi i risultati.

“Nella corporate identity totalizzante di el Prosper, Coppola sperimenterà per la prima volta la sua poetica della fusione tra architettura, graphic e product design, che andrà poi a confluire nel decalogo dell’ED (Exhibition Design). Questo gruppo di ricerca, di progettazione e di divulgazione, da lui fondato nel 1968 con l’obiettivo della convergenza tra le metodologie progettuali del graphic design con quelle dell’industrial design, vedrà l’adesione dei maggiori grafici di allora, da Giulio Confalonieri a Franco Grignani, da Bruno Munari a Pino Tovaglia (Mario Bellini vi si aggiungerà nel 1970)”.

La cosa che sorprende è la qualità del pensiero che sta dietro a un simile progetto: a partire dal logo con le iniziali di Diego Prospero tutto ha una sua logica coerenza. I materiali “moderni” come il cemento e l’acciaio inseriti in un palazzo storico, il frigorifero nella bussola d’ingresso con lo stesso elemento grafico del biglietto da visita, il logo riprodotto in vari materiali sia cartacei che sulle stoviglie. Tutta questa coerenza estetica insieme agli arredi disegnati da Coppola e prodotti da Bernini lasciano spazio anche alla goliardia estetica e come per il personaggio del ristoratore compare in parallelo all’immagine coordinata unsecondo elemento grafico che viene rappresentato da una mela che si sbizzarrisce tra manifesti e inviti vari a rallegrare la comunicazione del posto a volte mordendosi o fumando oppure ammiccando e sbadigliando.

Un’intuizione estetica che libera l’artista dallo schema rigido dell’impaginazione e delle regole architetturali. Questi poster oggi introvabili se nona prezzi folli, serigrafati su superfici metalliche, raccontano la possibilità di scherzare e di rimanere leggeri anche in giacca e cravatta.

Se il lavoro per “el Prosper” è per un solo committente, i progetti editoriali creati per Feltrinelli sono molto più sfidanti per un creativo anche perché un pubblico ampio di lettori può decretare il successo o meno di un autore. Ci sono i bellissimi lavori dalle copertine ispirate da singoli contenuti dove il lettering si muove con una propria energia non seguendo nessuno schema predisposto. Qualche similitudine con alcuni artisti russi degli anni ‘20 o dei futuristi nostrani ma anche una ricerca di “rompere gli schemi” tipici della ricerca grafica degli anni ’60.

Quello che però ho trovato geniale è il lavoro fatto per la collana “Franchi Narratori” dove l’idea alla base di tutto sta letteralmente “alla base”. E così il nome della collana (bellissimo) diventa più grande e presente del titolo e dell’autore e viene messo a piè pagina quasi a garantire l’appartenenza a un tipo di narrativa per tutte le opere della collana. Inoltre, l’uso del bianco e nero e di un solo colore, il rosso come ha fatto Albe Steiner prima di Coppola, creano una forza simbolica fortissima. Oggi la logica marchettara porterebbe a dire che il titolo della collana in basso verrebbe coperto nell’esposizione su alcuni scaffali e di sicuro verrebbe bocciato ma per fortuna ci sono state e sempre ci saranno delle eccezioni; ne sa qualcosa Penguin Books con le sue copertine puramente grafiche scollegate da tutto e da tutte le logiche.
Mi piace molto il lavoro di Coppola perché ci ho visto una costanza non solo estetica fatta da uno stile riconoscibile ma concettuale. In una sedia fatta da un solo tubo piegato chiamata Gru, perché si regge
su una gamba sola o in una lampada che sembra soltanto una tenda da finestra come nelle copertine che ribaltano il principio della rigidità o mettono sottosopra gli schemi correnti ho visto anche la “leggerezza” della ricerca creativa che è una dote più unica che rara e che nel clima meneghino degli anni ’60 coniugava il cabaret, la musica, il teatro con l’energia industriale che ha segnato l’epoca del miracolo italiano. Anche nella grafica.

Courtesy: Maria Luisa Ghianda, Doppiozero, Archivio Coppola / Fondazione Ragghianti, Heinz Waibl, Alle radici della comunicazione visiva.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Luglio | 2024 n° 06

In Sardegna, di uno che sta con le mani in mano si dice: “abarrai con i manusu in gruxi”, che letteralmente vuol dire “stare con le mani in croce”. Di Costantino Nivola, figlio di muratore e noto per la sua sconfinata produzione creativa, non si può certo dire che sia rimasto con le mani in mano. Anzi, le mani le ha usate insieme alle sabbie, alla calce, al gesso, alle pietre che ha scolpito, oltre a tutti gli strumenti classici di un art director e pittore che dalla sua amata Orani, in provincia di Sassari, è arrivato a New York per creare delle opere di rara bellezza.


La storia di Nivola incuriosisce per l’incredibile sequenza d’incontri con esponenti del mondo della cultura, dell’arte e dell’architettura e per le vicende personali che lo costringono ad abbandonare l’Italia in preda al delirio delle leggi razziali insieme a Ruth Guggenheim, tedesca di origine ebraica, sua compagna di corso all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, sposata nel ’38. Nivola era arrivato a Milano con una borsa di studio dopo aver imparato il mestiere del padre muratore e aver fatto l’apprendista del pittore Mario Delitala a Sassari e provato una carriera artistica indipendente senza grandi riscontri nell’isola.
Alla formazione artistica milanese, dopo il diploma all’ISIA di Monza, segue un periodo come direttore creativo della sezione grafica dell’Olivetti. Dal 1936 al 1938, a Milano sperimenta, grazie alla lungimiranza di Adriano Olivetti, la comunicazione grafica, contribuendo a creare l’immagine dell’azienda con un altro sardo conosciuto nello stesso istituto, Giovanni Pintori. Insieme, producono una serie di manifesti e campagne pubblicitarie fortemente innovative per l’epoca.

Come dicevo, è costretto a scappare prima in Francia e poi negli Stati Uniti, a causa delle persecuzioni razziali e dopo un difficile periodo di adattamento diventa a New York art director in diverse riviste; lavora per periodici di architettura come Interiors The New Pencil Points, che rinnova aprendoli all’influenza del modernismo europeo o per testate di moda (You) e di cucina (American Cookery). In qualità di free lance collabora ad Harper’s BazaarFortune e altre riviste, realizzando fra l’altro, subito dopo la fine della guerra, una serie di reportage grafici sull’Italia.

Come inviato speciale di Fortune torna in Sardegna nel 1952 per documentare gli esiti della campagna antimalarica, lanciata dalla Rockefeller Foundation, con una serie di vivaci tavole a colori pubblicate nel 1953. A New York incontra alcune delle più brillanti personalità creative che contribuiranno non poco a definire anche lo stile delle opere da lui concepite; oltre ai maestri dell’architettura europea che collaborano con Interiors come Gropius, Albers, Breuer, Moholy Nagy frequenta la scena creativa newyorkese dove conosce tra gli altri de Kooning, Kline, Léger, Pollock. Spiccano però tra le sue frequentazioni due personaggi che non hanno certo bisogno di presentazioni: Saul Steinberg, che conosceva già dagli anni di lavoro milanesi, e Le Corbusier con il quale condividerà visioni estetiche e una profonda amicizia dividendo per ben quattro anni lo studio. Nel ’47 torna a Milano dove pensava di trasferirsi ma le condizioni post belliche italiane lo scoraggiano e così nel ’48 compera una casa a Long Island, presso East Hampton, allora ancora abbastanza accessibile, e scopre giocando con i figli sulla spiaggia il sand casting; in pratica la tecnica consiste a grandi linee nell’usare uno stampo negativo ricavato nella sabbia, colando al suo interno un impasto di gesso, sabbia e cemento. Una volta asciutto il manufatto dà forma a un bassorilievo positivo del disegno fatto in precedenza. La tecnica così semplice gli consente di mettere in moto un linguaggio creativo-scultoreo che è prima di tutto grafico. Le forme e i simboli che si possono produrre sono molto semplificati e ne nasce un linguaggio ispirato al post-cubismo di Le Corbusier ma anche a certe forme d’arte centroamericane o africane.

La scoperta di questo linguaggio materico gli permette di realizzare un pannello per lo showroom Olivetti di New York che gli consente una visibilità ulteriore al punto da essere chiamato dalla Harvard University per diventare direttore del Design Workshop. Lo showroom Olivetti sulla Fifth Avenue è un progetto dello studio milanese BBPR (quelli della Torre Velasca) ed è un ambiente ricco di invenzioni dal sapore surrealista: dalle basi-stalagmiti in marmo che sostengono gli oggetti in vendita alle lampade- stalattiti in vetro di Murano, alla grande ruota che unisce il negozio al seminterrato, alla macchina da scrivere collocata fuori, sul marciapiede, a disposizione dei passanti ma è anche lo scenario perfetto per il grande murale dove Nivola diventa a tutti gli effetti lo scultore ideale per l’architettura.

“Il rilievo, lungo 23 metri, è stato realizzato con la tecnica del sand casting e rappresenta una serie di figure semiastratte, divinità che portano nel grembo piccole figure umane e che accolgono il visitatore con ampi gesti di benvenuto. Il grande successo del progetto impone Nivola in campo internazionale come collaboratore ideale per gliarchitetti modernisti, e al tempo stesso sancisce l’affermazione oltreoceano del design e della creatività italiani”. (Citazione Museo Nivola) Fortunatamente il rilievo è ricollocato nel 1973 nello Science Center dell’Università di Harvard, per volontà del progettista Josep Lluís Sert dopo essere stato smontato nel 1969, alla chiusura del negozio Olivetti. C’è un progetto che mi piace raccontare e che si ispira all’arte e alla comunità e che fa tesoro della lezione di etica ed estetica di Adriano Olivetti dove tutto era (peccato usare il passato!) pensato per mettere l’uomo al centro. “Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”, ebbe modo di dire e pensò alla comunità come primo nucleo dello stato democratico, come a un insieme che può essere migliorato anche grazie all’arte e all’estetica messa a disposizione di tutti per migliorarne la vita. Anche per Nivola “a partire dagli anni Cinquanta i temi della comunità, della partecipazione e condivisione acquistano importanza, generando opere profondamente innovative, come il “Pergola village” (1953), un progetto per collegare tutte le case di Orani per mezzo di pergole, e la mostra all’aperto allestita per tre giorni sempre a Orani nel 1958, nella quale il coinvolgimento dei paesani era parte integrante del progetto. In queste opere, al di là della scultura o della pittura, il vero centro del lavoro è la vita collettiva, i rapporti sociali” (Museo Nivola). Mi piace pensare che dietro all’opera di una mente così prolifica ci sia l’uomo che vede nella bellezza semplice, quella della materia grezza, la pietra o la sabbia, la possibilità di “scrivere” qualcosa che resti per molto tempo scolpito nella memoria collettiva di un luogo o di un gruppo di persone. E mi piace pensare che ci siano linguaggi grafici che a volte usano pennelli così grandi da tracciare linee e figure che rappresentano, come nell’arte grafica, l’essenza del messaggio. Credo che in un’epoca in cui si fa un gran parlare di intelligenze artificiali, che ritengo utili per fare progredire un certo tipo di scienze e di cui non temo la concorrenza nel nostro lavoro, mi piacerebbe vedere qualcun altro con la stessa forza creativa che, rimboccandosi fisicamente le maniche, produca con le “proprie” mani delle opere grafiche così potenti ed espressive. In attesa di scoprire un nuovo Nivola, per chi dovesse programmare un viaggio in Sardegna consiglio di visitare il Museo Nivola a Orani, in provincia di Nuoro, che conserva la più importante collezione al mondo dell’artista.

Courtesy: Museo Nivola, “Alle radici della comunicazione visiva italiana” (H.Waibl).

Leggi l’articolo su Touchpoint di Giugno | 2024 n° 05

«Lasciatemi parlare con gioia di un tempo in cui gli inviati speciali non venivano spediti su campi di battaglia, ma su campi di corse e di golf per ritrarvi le belle donne, la mondanità elegante, le raffinatezze della moda. Si viaggiava da una nazione all’altra senza passaporto e senza carta d’identità: una cosa meravigliosa. Esisteva poi una specie di internazionale dell’intelligenza che superava tutte le frontiere e anche gli eventuali dissensi politici. Era un’epoca in cui non si poteva che avere fiducia nell’avvenire […] La guerra cancellò tutto questo. Tornammo subito in Italia, mia moglie ed io. Boccioni, Sironi, Martinetti e Carrà partirono per il fronte cantando: «A morte Franz, viva Oberdan! Io, figlio di garibaldino, non potei partire. Una lettera era giunta alle autorità in cui mi si accusava di germanofilia. La mia collaborazione al Simplicissimus contribuiva a rendermi sospetto. Mi salvai dal confino per l’intervento del vecchio Giulio Ricordi. Rimasi però un vigilato speciale e per tutta la durata della guerra dovetti presentarmi ogni settimana in Questura. Con la guerra era finito il periodo più bello e spensierato della mia vita!»

Ecco cosa scriveva Marcello Dudovich, uno dei più grandi artisti, pittori, cartellonisti del secolo scorso, nel periodo compreso tra il 1915 e il 1818. Triestino di famiglia dalmata, era figlio di un impiegato delle Assicurazioni Generali che era stato garibaldino e di Elisabetta Cadorini, pianista.

In poche righe Marcello Descrive un Europa che sparisce con la grande carneficina della prima guerra mondiale; un Europa che lasciava passare e condivideva non solo i talenti creativi ma anche i pensieri matematici, fisici e ingegneristici. 

È interessante scoprire che la sua attività di inviato speciale per la rivista tedesca Simplicissimus prevedeva una vita agiata tra circoli culturali, corse dei cavalli e ambienti eleganti frequentati dalla buona borghesia. In questo contesto Dudovich elabora un tratto ma soprattutto una rappresentazione della figura femminile di estrema eleganza e ricercatezza che verrà più tardi apprezzata da aziende come La rinascente, Borsalino o dai Grandi Magazzini napoletani Mario Mele.

Dudovich inizia la sua carriera a Milano nel 1897, dove si trasferisce grazie all’amicizia del padre con Leopoldo Metlicovitz quello del manifesto del tunnel del Sempione, all’epoca già affermato pittore e cartellonista, e inizia come litografo alle Officine Grafiche Ricordi. 

I dettagli della sua carriera dicono che dopo un periodo piuttosto intenso a Bologna ed uno piuttosto rapido a Genova rientra a Milano dove diventa a tutti gli effetti un artista affermato realizzando tra il 1907 e il 1913 vari manifesti per le campagne pubblicitarie promosse dai Grandi Magazzini napoletani dei Fratelli Mele. È la consacrazione di uno stile dove la figura femminile emerge dal fondo volutamente neutro per attirare su di sé tutta l’attenzione e dove lo stile e i dettagli dettano per molto tempo la linea dell’eleganza italiana non priva di un’influenza internazionale, frutto dei continui scambi culturali di Dudovich con il mondo “mittel” europeo.

Alla fine della prima guerra mondiale, nel 1920 ritorna a Milano, dove inizia la collaborazione tra le altre, con La Rinascente per la quale, dal 1921 al 1956, realizzerà più di 100 manifesti. Attraverso i cartelloni realizzati Dudovich viene riconosciuto come un’importante figura non solo dal punto di vista grafico, ma anche per la capacità che hanno le sue immagini di comunicare un messaggio che interesserà e influenzerà milioni di persone.

L’eleganza, la mondanità, le corse dei cavalli, gli abiti eleganti e soprattutto la femminilità delle donne rappresentate lo portano ad una collaborazione più che naturale con la rivista La Donna, illustrandola come esempio di raffinatezza ed eleganza. L’artista immortala le donne sdraiate su morbidi divani o in alcove con i loro grandi cappelli, ombrelli, ventagli e gioielli che subiscono però nel periodo prebellico della seconda guerra mondiale un deciso cambiamento a favore di uno stile più sobrio e più militaresco. La nuova produzione di cartelloni perderà il raffinato soggetto femminile per lasciare spazio alla virilità della figura maschile, con corpi muscolosi e pose in tensione che saranno le nuove immagini propagandistiche dell’epoca fascista.

Dudovich ad un certo punto subisce anche il fascino della Libia, scoperta grazie ad un invito nel ’37 di Italo Balbo e gli resterà nel cuore anche dopo la fine del conflitto e dove ritornerà nel 1951 ritrovando nuova energia e nuove ispirazioni al punto da costringere gli ospiti del suo studio a sedute di posa per evocare fittizie situazioni “libiche”, obbligando amici e modelle a indossare improvvisati burnus e a posare per qualche serie di scatti fotografici.

Ci sono di questa sua passione dei bellissimi ritratti e delle opere che suggellano una produzione artistica sconfinata che gli ha permesso di firmare manifesti per i più grandi marchi italiani come Campari, Fiat, Florio, Borsalino e i già citati grandi magazzini La rinascente e Mario Mele.

L’eleganza dei suoi manifesti è ricercata e apprezzata in tutte le mostre che gli vengono dedicate e le aste dove i suoi manifesti vengono presentati sono spesso aggiudicati a prezzi a due cifre. 

La bellezza dello stile di Dudovich non è soltanto nel segno e nell’estrema eleganza delle sue rappresentazioni ma in un linguaggio che spesso anche a distanza di così tanto tempo è perfettamente riconoscibile e differenziante rispetto ad altri artisti della stessa epoca; c’è un passaggio da una visione liberty da Belle Èpoque ad un epoca “moderna” che fa si che le sue figure e i suoi soggetti acquistino via via dinamismo ed emergano per purezza e sintesi grafica in tutta la loro forza espressiva senza mia perdere di vista la classe e l’eleganza.

Courtesy: Archivio Marcello Dudovich, Alle radici della comunicazione Italiana, Heinz Weibl. Grafica Italiana, Giunti.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Maggio | 2024 n° 04

Capita a volte di ritrovarsi a parlare di cose che si sono date per scontate e che abbiamo classificato in un determinato modo riponendole in uno schedario mnemonico lontano e impolverato di lontani studi di storia dell’arte. Poi succede che un’opera o un manifesto riletti con una visione più libera di quella accademica assumano una luce completamente nuova. Prendiamo Fortunato Depero e il suo manifesto sul futurismo e l’arte della pubblicità. Prima di Depero è doverosa una piccola interruzione pubblicitaria per chi non conosce il lavoro che spesso avviene nelle agenzie di pubblicità. Molte volte, infatti, davanti a nuovi progetti strategici o a nuovi clienti si sente dire: dobbiamo elaborare un “manifesto” che serva all’azienda per ricordarsi qual è la vision o la mission aziendale ma anche all’agenzia per riassumere spesso in modo cinematografico quali sono
i valori da comunicare. E poi se va bene, ci scappa anche una bella produzione video da chiamare video corporate o video… manifesto.

Premesso che è sempre utile partire dalle basi per costruire un edificio di comunicazione, quando mi sono imbattuto nel “Manifesto dell’arte pubblicitaria” di Depero, al sorrisetto un po’ sarcastico che mi era comparso ho aggiunto anche una sana dose di attenzione perché, via via che il testo si snocciolava comparivano alcune affermazioni che in fondo in fondo condividevo.

“L’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria… è un’arte decisamente colorata, obbligata alla sintesi; arte fascinatrice che audacemente si piazzò sui muri, sulle facciate dei palazzi, nelle vetrine, nei treni, sui pavimenti dele strade, dappertutto; si tentò perfino di proiettarla sulle nubi; arte viva, moltiplicata, e non isolata e sepolta nei musei; arte libera d’ogni freno accademico – arte gioconda – spavalda – esilarante – ottimista – arte di difficile sintesi, dove l’artista è alle prese con l’autentica creazione”.

Se questo vale genericamente per i creativi o per le agenzie di pubblicità e trasmette tutta l’ingenua energia di un’epoca prebellica in cui spesso si guardava al futuro dal punto di vista del futurismo (movimento) come a qualcosa che avrebbe spazzato via il passato, vale comunque per alcune affermazioni su quanto la pubblicità fosse presente e invasiva già allora. Sulle nubi? Sì, probabilmente si immaginavano modi sempre più d’impatto ma a differenza di oggi, sempre con un certo “gusto” estetico. Poi c’è un’altra parte divertente ma altrettanto fondamentale che conosce bene chi fa il lavoro in agenzia ed è che non basta il proprio talento creativo e strategico se dall’altra parte non c’è un committente pubblico o privato che recepisca in modo altrettanto creativo e competente quanto gli viene proposto.

Ecco quindi, che secondo Depero “un solo industriale è più utile all’arte moderna e alla nazione che 100 critici, che 1000 inutili passatisti”. Avete presente i critici? Quelli che davanti a un progetto creativo cominciano con: sì, ma… oppure sì… però. Gli yes butters che mettono dubbi e impediscono quell’arte gioconda – spavalda – esilarante – ottimista – arte di difficile sintesi. Ecco Depero è stato un esilarante ottimista e nonostante la problematica partecipazione a un periodo storico che l’ha visto cantore fantasista del fascismo e dei messaggi del suo capo, ha rappresentato per la pubblicità e per la grafica un enorme punto di riferimento. L’approccio futurista di rivedere lo spazio della pagina in modo diverso ha portato a creare leprime impaginazioni libere dalle colonne. Posso immaginare quanto devono aver fatto impazzire i tipografi nel creare blocchi in diagonale giustificati. Già nel ’23 aveva elaborato l’uso plastico- architettonico di scritte definendole “architettura tipografica” e dopo aver soggiornato a Parigi per cinque anni e per un breve periodo anche a New York, aveva trovato tra le grandi riviste di moda come Vanity FairEmporiumLa Rivista eVogue gli interlocutori colti per la sua forma di comunicazione grafica.

Poi il pittore-scultore-scrittore inventore della “reinvenzione fabulistica-meccanica della realtà” trova, tra le tante aziende con cui collabora, il terreno fertile per creare per la Campari alcuni dei messaggi e delle immagini più iconiche della storia della comunicazione. Depero con la sua creatività colorata e le sue scritte verticali o diagonali mi ricorda sempre Alighiero Boetti e i suoi dipinti-tessuti con la scanzonata voglia di lanciare dei messaggi ma al contempo di deridere un po’ anche lo spettatore costringendolo a una fatica nel decifrare il messaggio. A Rovereto, La Casa d’Arte Futurista Depero è l’unico museo fondato da un futurista – lo stesso Depero, nel 1957-in base a un progetto dissacrante e profetico: innovazione, ironia, abbattimento di ogni gerarchia nelle arti. Depero, da vero pioniere del design contemporaneo, curò personalmente ogni dettaglio: i mosaici, i mobili, i pannelli dipinti. Una casa museo di un futurista incastrata in un borgo medievale; una giusta provocazione da accostare a una delle sue frasi riportate nel sito che dice:

“Quando vivrò di quello che ho pensato ieri, comincerò ad aver paura di chi mi copia”.

Courtesy: Archivio Fortunato Depero, Casa d’Arte Futurista Depero, Domus, Galleria Campari, personal collection.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Aprile | 2024 n° 03