Immaginiamo per un attimo che i migliori creativi internazionali del momento si trovino tutti o quasi a lavorare nella stessa agenzia e in una città internazionale.

Il pensiero correrà a New York o a Londra e a nessuno verrà in mente di immaginare che Milano nel decennio precedente allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fu
in grado di attirare i migliori creativi d’oltralpe grazie a una struttura, lo Studio Boggeri, che fu la culla di un momento creativo in cui la “scuolasvizzera” si ibridò con la nascente cultura estetica e industriale mediterranea. In “Mapping Graphic Design History in Switzerland”, a cura di Robert Lzicar e Davide Fornari, Triest Verlag, (Zürich 2016), c’è una bellissima analisi dal titolo evocativo: “Swiss Style Made in Italy: Graphic Design across the Border” in cui si sottolinea come il 1933 sia stato l’anno che influenzò maggiormente la grafica italiana grazie alla nascita della rivista Campo Grafico ma anche e soprattutto per l’apertura
da parte di Antonio Boggeri, della sua agenzia. Nello stesso tempo in cui Albe Steiner iniziava la sua carriera, Alexander Schawinsky emigrava in Italia e Antonio Boggeri, che era stato il direttore della Alfieri e Lacroix, apriva uno studio dal profilo internazionale ispirato ai valori del Bauhaus. Sempre nel ’33 si apre a Milano la Quinta Triennale e il padiglione tedesco presenta un padiglione ispirato alle arti grafiche e da un commento di Edoardo Persico emerge che: “soltanto la mostra tedesca, che si limita a saggi di grafica, e la mostra svedese […] sono al corrente del gusto europeo.

Basterebbe notare come la composizione tipografica si vada orientando, in Germania, verso equilibri e ritmi che esistono indipendentemente dal contenuto dello scritto, per capire come questo espressionismo grafico si accordi al gusto più vivo dell’arte moderna”.

Inutile dire che un’altra ragione per cui Milano divenne un polo d’attrazione è che, nel frattempo, in Germania il regime nazista stava demolendo la cultura estetica considerata non conforme (la Bauhaus cessò l’attività nel settembre del 1932) e perseguitando i primi artisti grafici di origine ebraica che emigrarono negli Stati Uniti, in Svizzera o come Alexander “Xanti” Schawinsky in Italia. Il suo arrivo fu il primo esempio della diaspora della conoscenza sviluppata al Bauhaus. L’uso del fotomontaggio da parte di László Moholy-Nagy e la nuova tipografia sviluppata da Herbert Bayer e altri avevano risvegliato interesse tra i professionisti italiani. Schawinsky trovò sostegno nell’agenzia recentemente fondata da Antonio Boggeri che, oltre ad avere un’apertura mentale internazionale, aveva sviluppato quand’era direttore di Alfieri & Lacroix una serie di esperimenti grafici e fotografici che sfruttavano anche le nuove tecnologie di stampa.

Un imprenditore e direttore creativo completamente nuovo nel panorama italiano che trovò la giusta corrispondenza nel gusto moderno nascente e che per questo venne scelto dalle più grandi aziende manifatturiere dell’epoca. Secondo alcuni la presenza di Schawinsky a Milano compensò l’assenza di scuole di grafica in Italia e attrasse allo studio Boggeri una generazione di giovani grafici italiani, come Muratore, Veronesi, Munari, Castagnedi, Grignani, Nizzoli, Carboni. Analogamente, Schawinsky aiutò Boggeri a esplorare la scena svizzera: andarono insieme a Zurigo nel 1935 per incontrare Hans Finsler, un fotografo e insegnante della Kunstgewerbeschule.

Schawinsky non si limitava a padroneggiare un gran numero di tecniche progettuali e di disegno, ma le introdusse nella cultura italiana del design: l’uso di retini colorati e del fotomontaggio sono due delle influenze più evidenti della breve ma intensa permanenza di Schawinsky in Italia.

A questo punto della narrazione la fucina che crebbe alcuni tra i più grandi talenti creativi come Munari, Nizzoli, Grignani, Carboni diventò il punto di riferimento per una neonata cultura grafica in cui la pulizia e l’ordine estetico svizzero si fusero con il “disordine” espressionista all’italiana che vedrà i risultati più eclatanti subito dopo la fine delle Seconda Guerra Mondiale con le opere di Max Huber, grande interprete di questo mix di culture estetiche. Huber disegnò alcuni dei poster più famosi per il Gran Premio di Monza e tra le tante attività fu l’ideatore della “S” allungata dei Supermercati diventati dopo l’intervento di Armando Testa, Esselunga. Tornando alla storia dello Studio Boggeri una parte del merito della visione imprenditoriale lo si deve attribuire alla “visione” del fondatore o come oggi diremmo al posizionamento innovativo sul mercato italiano del suo studio che consisteva nel riunire in una sola struttura un gruppo di professionisti capaci di gestire la pubblicità dall’ideazione alla produzione. Insomma, un’agenzia ante litteram a servizio completo. Armando Milani, insegnante e grafico di fama internazionale, che con lo Studio Boggeri ha iniziato la sua attività, si stupisce di quanto poco sia conosciuto tra i giovani nonostante l’impronta lasciata dallo studio.

Purtroppo, è vero e credo che una parte della “dimenticanza” sia dovuta all’arrivo della televisione in Italia, di Carosello e delle multinazionali americane che hanno creato un nuovo paradigma della comunicazione facendo, erroneamente secondo me, apparire quanto fatto prima come obsoleto. Riporto un pezzo di un’intervista a Bruno Monguzzi, che da svizzero ed ex collaboratore di Boggeri spiega poeticamente la visione di Boggeri e della sua estetica grafica: 

“Boggeri mi chiama nel suo studio e comincia a raccontarmi una storia di ragni e di ragnatele. E con le sue bellissime mani, le mani più belle che io abbia mai toccato, (era anche violinista!) traccia diverse tipologie di ragnatele nello spazio. Finalmente arriva alla grafica e mi dice che spesso la grafica svizzera è perfetta, ma spesso di una perfezione inutile. Utile, la ragnatela, sarebbe diventata
solo quando infranta dalla mosca. È così, che grazie a lui, è cominciata questa ricerca del senso nel mio lavoro”.

È divertente questa analogia tra i due mondi, quello svizzero ordinato e pulito fatto di linee che si infrangono quando arriva la mosca. Una mosca che si muove, si dibatte, si contorce e prova a rompere l’ordine per liberarsi e a questo punto la domanda che sorge spontanea è: se la mosca che rompe gli schemi e la ragnatela, rappresenta la cultura italiana, il ragno, che passaporto ha?

COURTESY BY: ROBERT LZICAR E DAVIDE FORNARI / MAPPING GRAPHIC DESIGN HISTORY IN SWITZERLAND, TRIEST VERLAG. BRUNO MONGUZZI, LO STUDIO BOGGERI 1933–1981, ELECTA. BRUNO MONGUZZI, LA MOSCA E LA RAGNATELA.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Novembre | 2024 n° 09

E’ il 1966 e Graphis, la più importante rivista internazionale di grafica ed arti applicate dell’epoca, nel numero 126, dedica un lungo servizio ad uno dei più importanti e riconosciuti artisti grafici del secolo scorso: Franco Grignani. Del suo lavoro hanno parlato in molti e sono stati pubblicati molti libri per presentare l’opera così unica e riconoscibile, sia come pittore che come grafico. Del suo lavoro come pubblicitario, partendo proprio da questo spunto di Graphis, ne ho parlato con il nipote Emiliano Camera Grignani che ho contattato e incontrato per farmi raccontare qualche cosa di più della semplice biografia ma soprattutto del suo lavoro di curatore dei lavori del nonno e in particolare di tutte le pubblicità fatte in ventisette anni di lavoro per Alfieri & Lacroix.

Secondo Graphis il lavoro fatto per A&L è un “véritable phénomène” perché l’azienda ha lasciato carta bianca all’artista e Grignani nel suo lavoro di “pubblicitario” non fa riferimento al prodotto in modo diretto (servizio di stampa e fotolito) ma lo allude soltanto interpretando nei vari annunci elementi grafici che richiamano il retino di stampa, mescolando foto in bianco e nero con le sue elaborazioni grafiche oppure utilizzando i caratteri tipografici in modo creativo. Le fotografie in bianco e nero con le loro distorsioni fanno parte di un lavoro di sperimentazione e si inseriscono negli elementi grafici che richiamano l’opera di Grignani creando un effetto moderno ed insolito.

 La “trama” artistica, come viene definita dalla rivista, è unica e appartiene al lavoro di un artista diventato tale dopo aver studiato architettura e dove i moduli matematici sembrano essere alla base della costruzione dei suoi lavori.

Gli effetti ottici delle sue opere in questi annunci per A&L, quando dialogano con le immagini fotografiche, mantengono la relazione cinetica di tutti gli interventi di Grignani. 

Oggi siamo portati a pensare che il lavoro di Grignani potrebbe essere fatto senza molta fatica da qualunque computer ma se contestualizziamo il lavoro portando indietro le lancette dell’orologio agli anni ’60 ci rendiamo conto che è abbastanza difficile trovare nella stessa epoca opere dalla forza grafica così espressiva e innovativa.

Emiliano, in un video che ho trovato molto interessante, racconta attraverso “le iperboliche rivelate”, la tecnica usata dal nonno per la costruzione di alcuni suoi dipinti in grado di disorientare il pubblico.

La tecnica prende spunto da un’idea geometrica, un modulo grafico di base che viene applicato ad un reticolo distorto di linee verticali e orizzontali che generano un effetto sorprendentemente tridimensionale e a volte “vertiginoso”. Delle opere di Grignani non si sono occupati solo grandi personalità del mondo della cultura come Cesare Musatti che nel 1981 ha commentato per Lorenzelli Arte il magnifico lavoro dell’artista ma anche persone che con l’arte apparentemente c’entravano poco, come il fisico nucleare Giuseppe Caglioti che affascinato dalle opere di Grignani ha visto analogie con la fisica quantistica di cui si occupava.

Una curiosità che emerge dal racconto del nipote è che ad ogni struttura reticolare, Grignani aveva attribuito un nome di città e così scopriamo dalla spiegazione che alcuni di questi reticoli hanno nomi di città italiane come Roma o Milano ma anche internazionali come Los Angeles o addirittura in onore della città natale della moglie Jeanne, Melitopol in Ucraina.

Guardando il video di presentazione rilasciato da Emiliano e dopo la sua spiegazione di come si “costruisce” un’opera viene da pensare, come quando vengono svelati i trucchi di magia, che sembri “facile” però dobbiamo immaginare l’artista che dopo gli schizzi preparatori sui foglietti quadrettati realizza a mano su cartoncino e con la tempera le complesse e molteplici forme geometriche che non ammettevano errori e che richiedevano il massimo della concentrazione.

Una volta finito, il dipinto veniva collocato nel soggiorno per essere ammirato e osservato dai familiari ai quali Grignani dava un consiglio che è un consiglio che ho provato anche io a seguire scoprendone il lato interessante: non guardate l’opera soltanto frontalmente, cercate di osservarla con la coda dell’occhio e muovetevi in modo da vedere che a seconda dei punti di vista, le forme statiche acquisiscono una dinamicità e una profondità diversa.

Qualche cenno biografico per inquadrare una figura così particolare: 

la professione del designer nasce dopo la laurea in architettura e la lista degli appuntamenti artistici a cui ha partecipato è sconfinata: è stato uno dei primissimi membri dell’AGI la prestigiosa Alliance Graphique Internazionale. Dal ’65 in poi è stato invitato come ospite negli Stati Uniti presso la Southern Illinois University of Carbondale, membro della giuria alla Biennale de l’Affiche a Varsavia, ha vinto un Leone d’argento alla 36 Biennale di Venezia solo per citarne alcune sue partecipazioni. Le sue opere, oltre a molte esposizioni personali, sono esposte nelle collezioni permanenti al MoMa di New York, al Rijksmuseum di Amsterdam, al MACBA di Buenos Aires, al MACC di Caracas al Victoria and Albert Museum di Londra. 

Grignani è stato uno dei maggiori sperimentatori di fotografia e uno dei più acuti ricercatori sulla percezione visiva e non è classificabile o confinabile nei cluster stereotipati ai quali siamo abituati; è un punto di vista il suo, così unico e personale che mantenendo una coerenza assoluta nel tempo ha creato uno stile artistico che viene sempre di più apprezzato e studiato dai giovani designers in un’ottica di “visual perception” e la sua modernità stupisce e non subisce il limite del tempo. A proposito di modernità, pensiamo alla dimensione di equilibrio di uno dei marchi più originali e longevi disegnato da Grignani, come quello della Pura Lana Vergine che mantiene tutta la forza dello stile di Grignani risultando senza tempo forse perché l’architetto Grignani l’ha costruito con dei criteri classici fatti di rapporti matematici e ottici di pieni e di vuoti come del resto venivano architettati i templi greci che sfruttavano proporzioni auree e i rapporti tra altezze e profondità,  tra vuoti e pieni. 

Ho trovato in rete alcune curiosità come dei tutorial per riprodurre al computer il logo della Pura Lana Vergine e una volta realizzato sembra di vedere l’originale ma (e mi posso sbagliare) credo che nell’originale ci sia qualcosa di meno meccanico di quello ottenuto al computer e la ragione credo stia nella capacità di adattare il logo alle varie misure di utilizzo: non a caso quando si progettava un logo manualmente si adattavano gli spessori alle diverse dimensioni di utilizzo per cui quando il logo veniva preparato per l’utilizzo in dimensioni molto piccole si aprivano in modo impercettibile tutti i tratti in negativo.

L’opera di Grignani viene vista e studiata da centinaia di studenti tutti gli anni nei corsi delle varie accademie grafiche di tutto il mondo; l’aspetto incredibile secondo me di questo maestro della longevità grafica e artistica è proprio legato all’unicità del suo segno che ha rappresentato la sua cifra stilistica cambiando nel tempo ma rimanendo sempre riconoscibile. Una caratteristica molto rara per qualunque artista e che nel lungo lavoro per Alfieri & Lacroix mostra tutte le fasi evolutive di forme, materiali, fotografie stupendo e meravigliando ogni volta il pubblico con risultati sempre nuovi.

Il blog dedicato a Franco Grignani curato dal nipote Emiliano, è un invito alla scoperta e “to disseminate the excellence of the works of Franco Grignani in graphic design among the new generations of students”. Una “mission” che trovo incredibilmente generosa da parte di Emiliano verso coloro che, studenti o accademici, abbiano bisogno di supporto e informazioni sul lavoro sconfinato del nonno, soprattutto in un’epoca in cui mi sembra di percepire un “tutti contro tutti” per sopravvivere (forse) ai segnali inquietanti di una Intelligenza Artificiale che sembra sempre più invasiva nell’arte di copiare e riprodurre i lavori esistenti senza riconoscere l’autorialità delle opere.

Courtesy: Emiliano Camera Grignani

https://www.francogrignani.info/the-full-set-of-ads-for-alfieri-lacroix

https://www.francogrignani.info/the-hyperbolics-revealed

https://www.francogrignani.info/ael

https://www.artsteps.com/view/60ccc2464216e2584a6e43ee

https://vimeo.com/159151519

Leggi l’articolo su Touchpoint di Ottobre | 2024 n° 08

Nel percorso espositivo della bellissima mostra dedicata a Roberto Sambonet alla Triennale curata da Enrico Morteo, ho visto il “viaggio” di un artista, di un uomo, di un grafico e di un designer da un punto di vista insolito: dal mare. Preferisco seguire il filo delle emozioni che ho provato nello scoprire sia il percorso professionale sia quello intimo e personale del navigatore. Il navigatore e pittore che sceglie già da bambino che farà il pittore e che a ragion veduta ha il talento per poter affermare una cosa simile, cresce in una grande casa a Vercelli dove il nonno materno, pittore, decoratore e scenografo probabilmente asseconda il talento
del nipote anche perché sembra che all’età di poco di più di tre anni ritraesse non solo i suoi familiari, ma chiunque passasse per la casa di famiglia.

La passione per la pittura lo portò a consolidare il proprio percorso artistico iscrivendosi nel 1950 al corso di affresco che Achille Funi teneva presso l’Accademia Carrara di Bergamo e partecipando alla esperienza del gruppo dei Picassiani, nonostante avesse già iniziato gli studi di architettura al Politecnico tra il 1942 e il 1945, seguendo i desideri paterni. L’allestimento della mostra mette in luce un’impressionante quantità di “cose” fatte, dipinte, disegnate o ritagliate che mi portano a pensare che Sambonet abbia passato tantissimi momenti della sua vita con un pennello o una matita in mano riempiendo cartoline, tele o block notes di immagini, idee e suggestioni. La mostra si divide in tre fasi, presentando nel percorso il lato dell’artista più conosciuto: quello del designer. Le forme degli oggetti pensati e realizzati nella sua lunga attività sono delle autentiche “invenzioni” che oltre ad aver ottenuto importanti riconoscimenti celebrati con 3 Compassi d’Oro più uno alla carriera, lasciano nella iconografia del design italiano delle forme uniche sia per bellezza assoluta sia per funzionalità come la pesciera prodotta dall’azienda di famiglia, espressione di un raffinato capolavoro di ingegneria, difficilmente imitabile per la complessità dello stampaggio dell’acciaio e oggi in collezione al MoMA di New York.

Tornando all’Ulisse del racconto visivo nel mondo della grafica e dell’immagine ho visto con gli occhi di chi va per mare gli orizzonti mediterranei in dipinti dallo sviluppo orizzontale (la pesciera non è una coincidenza) dai colori spesso sintetici, una striscia di terra a volte scura che taglia due grandi superfici di blu diverso. Mi piace immensamente questo suo girovagare cercando nel viaggio spunti interessanti; lo sono sicuramente i tratti delle foglie o delle piante illustrate durante il suo soggiorno brasiliano.

Questa forza assoluta del segno ottenuta con un solo colore scuro su carte color ocra la si ritrova nei ritratti delle persone che soffrono di disturbi psichici dell’ospedale di Juqueri, a cinquanta chilometri da San Paolo. Ha ritratto le persone e il loro disagio psichico, vestito con un camice da medico e cogliendo la sofferenza e la malattia in modo accennato. Una parte di questo lavoro diventa il materiale illustrato del bellissimo libro “Della Pazzia” realizzato nel ’77 con l’interpretazione grafica di Bruno Monguzzi dei testi di accompagnamento di vari autori da Dino Campana a Michail Bulgakov, da Euripide a William Shakespeare.

La capacità di Sambonet di esprimersi attraverso la ricerca di linee pure e di sintesi estrema nel design lo portano a fare dei progetti grafici di assoluta efficacia; insieme a Pino Tovaglia, Bruno Munari e Bob Noorda, per esempio, progetta il logo della Regione Lombardia prendendo spunto dalla rosa camuna ma disegna anche il logo per la Triennale di Milano usando i cerchi tanto presenti nelle sue opere grafiche. Enrico Morteo, nella sua presentazione della mostra cerca di cogliere il filo conduttore di lavori che sembrano appartenere a personalità diverse dello stesso Sambonet; si chiede come possa convivere il mondo rigoroso fatto di linee essenziali tracciate a china con la leggerezza di opere pittoriche ricche di colore ed energia.

La spiegazione e interpretazione data dalla figlia Maia Sambonet sta in parte nelle immagini fotocopiate in rosso di tanti disegni, foto e progetti che in qualche modo annullano grazie all’unicità del colore le varie forme a tratti spigolose a tratti sinuose del lavoro dell’artista e permettono anche di riconoscere probabilmente un percorso fatto di ricerche e tappe diverse di una vita e di un viaggio alla scoperta di orizzonti unici, per tornare alla figura del viaggiatore-navigatore. Sempre parlando del “viaggiatore” Sambonet, la varietà e unicità che si trova nelle cartoline che ha realizzato, tutte diverse una dall’altra, e spedite ai figli Guia e Giovanni, quando era lontano, cercando di ridurre la distanza, mi hanno fatto pensare al desiderio di questo Ulisse di poche parole di comunicare attraverso elementi visivi a volte diversissimi tra loro (foto, collage, disegni) usando come denominatore comune l’espressività creativa costretta da uno spazio predefinito e obbligato, quello del rettangolo postale.

Non ho parlato per ragioni di spazio dei ruoli avuti da Sambonet con La Rinascente o con la Pirelli, dell’attività come art director della rivista internazionale di architettura Zodiac, della collaborazione con Pietro Bardi, Direttore del MASP di San Paolo, e con sua moglie Lina Bo Bardi, dell’amicizia con Alvar Aalto e di tanti altri, ma posso dire che dal percorso espositivo delle opere fino agli ultimi grandi quadri che mostrano porzioni di mare, la vita di Sambonet è stata caratterizzata da una passione per le cose che ha creato in un movimento creativo che, per energia e varietà, ricorda proprio il movimento continuo del mare e come un novello Ulisse lo ha attraversato guardando sempre a nuovi orizzonti.

Courtesy: Enrico Morteo, curatore della mostra “La Teoria della Forma”. Archivio pittorico Roberto Sambonet, Milano. Casva, Fondo Roberto Sambonet.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Agosto/Settembre | 2024 n° 07

Ho visto arrivare la Milano da bere prima ancora che nei poster di RSCG, a firma di Marco Mignani, dai finestrini del treno che entrava in Stazione Centrale. Avevo il mio portfolio monumentale e cartaceo che mi trascinavo dalla provincia del Nord Est e da poco a Milano si respirava quell’aria da dopolavoro brillante davanti ai primi spritz, in cui tutti ti davano consigli nel bene e nel male sulle agenzie da frequentare. Conoscevo già Milano perché avevo seguito, per alcuni importanti clienti, shooting fotografici o allestimenti fieristici e quindi conoscevo uno dei posti che mi permetteva ogni volta di fare scouting tra libri di grafica e pubblicità: la libreria Salto. Nel seminterrato sulla “circonvalla” interna c’era un autentico tesoro di libri americani, inglesi e tedeschi e tornavo a casa sempre più carico di quando partivo.

Non sapevo però che a pochi metri di distanza ci fosse uno dei migliori ristoranti di Milano e anche uno dei migliori esempi di immagine coordinata totalizzante dove architettura, design e grafica contribuivano a rendere “el Prosper” (il nome del ristorante) uno degli esempi di comunicazione meneghina più coerenti e goliardici in un’epoca in cui i creativi, i grafici e gli architetti vestivano abiti di buona fattura, indossavano la camicia e la cravatta e spesso fumavano la pipa.

Silvio Coppola è stato tutto questo: un architetto capace di mettere il suo talento a disposizione di discipline collegate tra loro da elementi come la creatività, le rigide regole delle proporzioni auree e la ricerca innovativa.

Un po’ di biografia tratta da un articolo a firma di Maria Luisa Ghianda per Doppiozero che mi ha fatto scoprire un lato che non conoscevo di lui: Silvio Coppola nasce a Brindisi nel 1920, ma sceglie Milano per vivere e per lavorare e al suo Politecnico si laurea nel 1957. Membro attivo delle associazioni di design tra le più prestigiose, quali l’ADI (Associazione per il Disegno Industriale), l’Art Directors Club (di cui progetta il famoso logo), l’AGI (Alliance Graphique Internationale), dove ricopre per due anni l’incarico di Vicepresidente, e l’AIGA di New York, è stato il curatore dell’immagine di prestigiose industrie.


Il lavoro di Coppola l’ho incontrato varie volte nel design e nell’arredamento ma non conoscevo questa divertente storia che sta dietro a “el Prosper” e qui devo dire che nella descrizione di Ghianda compare quella Milano che ho intravvisto poco prima di quella “da bere” e che mi piaceva molto di più. “Quando il Prospero era in vena (il che accadeva di sovente, stimolata la sua vena dalle goliardiche richieste dell’appassionata clientela) inscenava un vero e proprio spettacolo di cabaret vestendo i panni di un mordace e verboso sacerdote che predicava in dialetto bergamasco, pronto a dispensare sferzanti omelie all’uditorio, contrappuntate da pungenti analisi socio-politiche sui fatti di cronaca del momento. E quei panni non li vestiva solo metaforicamente, indossava davvero ‘la toniga e ul capèl da prēt’, finendo per somigliare, così abbigliato, al don Camillo di Guareschi interpretato al cinema da Fernandel, proprio tra gli Anni Cinquanta e Sessanta. È indubbio che la cucina de el Prosper fosse una delle migliori della Milano d’allora, ma quelle prediche la rendevano unica e ancora più appetitosa. L’adepto più illustre (però raramente presente in sala perché troppo serio per pender parte alla baldoria) di quella brancaleonica combriccola era Silvio Coppola (1920-1985), il fedelissimo di “don Diego”, progettista dell’immagine coordinata e dell’architettura d’interni del suo mitico ristorante, evolutosi da mescita di vini a tavola calda nel 1882, per poi diventare el Prosper negli Anni Sessanta del Novecento”. A tavola si concludevano contratti o si iniziavano progetti e spesso il luogo era un elemento importante per entrambi i risultati.

“Nella corporate identity totalizzante di el Prosper, Coppola sperimenterà per la prima volta la sua poetica della fusione tra architettura, graphic e product design, che andrà poi a confluire nel decalogo dell’ED (Exhibition Design). Questo gruppo di ricerca, di progettazione e di divulgazione, da lui fondato nel 1968 con l’obiettivo della convergenza tra le metodologie progettuali del graphic design con quelle dell’industrial design, vedrà l’adesione dei maggiori grafici di allora, da Giulio Confalonieri a Franco Grignani, da Bruno Munari a Pino Tovaglia (Mario Bellini vi si aggiungerà nel 1970)”.

La cosa che sorprende è la qualità del pensiero che sta dietro a un simile progetto: a partire dal logo con le iniziali di Diego Prospero tutto ha una sua logica coerenza. I materiali “moderni” come il cemento e l’acciaio inseriti in un palazzo storico, il frigorifero nella bussola d’ingresso con lo stesso elemento grafico del biglietto da visita, il logo riprodotto in vari materiali sia cartacei che sulle stoviglie. Tutta questa coerenza estetica insieme agli arredi disegnati da Coppola e prodotti da Bernini lasciano spazio anche alla goliardia estetica e come per il personaggio del ristoratore compare in parallelo all’immagine coordinata unsecondo elemento grafico che viene rappresentato da una mela che si sbizzarrisce tra manifesti e inviti vari a rallegrare la comunicazione del posto a volte mordendosi o fumando oppure ammiccando e sbadigliando.

Un’intuizione estetica che libera l’artista dallo schema rigido dell’impaginazione e delle regole architetturali. Questi poster oggi introvabili se nona prezzi folli, serigrafati su superfici metalliche, raccontano la possibilità di scherzare e di rimanere leggeri anche in giacca e cravatta.

Se il lavoro per “el Prosper” è per un solo committente, i progetti editoriali creati per Feltrinelli sono molto più sfidanti per un creativo anche perché un pubblico ampio di lettori può decretare il successo o meno di un autore. Ci sono i bellissimi lavori dalle copertine ispirate da singoli contenuti dove il lettering si muove con una propria energia non seguendo nessuno schema predisposto. Qualche similitudine con alcuni artisti russi degli anni ‘20 o dei futuristi nostrani ma anche una ricerca di “rompere gli schemi” tipici della ricerca grafica degli anni ’60.

Quello che però ho trovato geniale è il lavoro fatto per la collana “Franchi Narratori” dove l’idea alla base di tutto sta letteralmente “alla base”. E così il nome della collana (bellissimo) diventa più grande e presente del titolo e dell’autore e viene messo a piè pagina quasi a garantire l’appartenenza a un tipo di narrativa per tutte le opere della collana. Inoltre, l’uso del bianco e nero e di un solo colore, il rosso come ha fatto Albe Steiner prima di Coppola, creano una forza simbolica fortissima. Oggi la logica marchettara porterebbe a dire che il titolo della collana in basso verrebbe coperto nell’esposizione su alcuni scaffali e di sicuro verrebbe bocciato ma per fortuna ci sono state e sempre ci saranno delle eccezioni; ne sa qualcosa Penguin Books con le sue copertine puramente grafiche scollegate da tutto e da tutte le logiche.
Mi piace molto il lavoro di Coppola perché ci ho visto una costanza non solo estetica fatta da uno stile riconoscibile ma concettuale. In una sedia fatta da un solo tubo piegato chiamata Gru, perché si regge
su una gamba sola o in una lampada che sembra soltanto una tenda da finestra come nelle copertine che ribaltano il principio della rigidità o mettono sottosopra gli schemi correnti ho visto anche la “leggerezza” della ricerca creativa che è una dote più unica che rara e che nel clima meneghino degli anni ’60 coniugava il cabaret, la musica, il teatro con l’energia industriale che ha segnato l’epoca del miracolo italiano. Anche nella grafica.

Courtesy: Maria Luisa Ghianda, Doppiozero, Archivio Coppola / Fondazione Ragghianti, Heinz Waibl, Alle radici della comunicazione visiva.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Luglio | 2024 n° 06

In Sardegna, di uno che sta con le mani in mano si dice: “abarrai con i manusu in gruxi”, che letteralmente vuol dire “stare con le mani in croce”. Di Costantino Nivola, figlio di muratore e noto per la sua sconfinata produzione creativa, non si può certo dire che sia rimasto con le mani in mano. Anzi, le mani le ha usate insieme alle sabbie, alla calce, al gesso, alle pietre che ha scolpito, oltre a tutti gli strumenti classici di un art director e pittore che dalla sua amata Orani, in provincia di Sassari, è arrivato a New York per creare delle opere di rara bellezza.


La storia di Nivola incuriosisce per l’incredibile sequenza d’incontri con esponenti del mondo della cultura, dell’arte e dell’architettura e per le vicende personali che lo costringono ad abbandonare l’Italia in preda al delirio delle leggi razziali insieme a Ruth Guggenheim, tedesca di origine ebraica, sua compagna di corso all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, sposata nel ’38. Nivola era arrivato a Milano con una borsa di studio dopo aver imparato il mestiere del padre muratore e aver fatto l’apprendista del pittore Mario Delitala a Sassari e provato una carriera artistica indipendente senza grandi riscontri nell’isola.
Alla formazione artistica milanese, dopo il diploma all’ISIA di Monza, segue un periodo come direttore creativo della sezione grafica dell’Olivetti. Dal 1936 al 1938, a Milano sperimenta, grazie alla lungimiranza di Adriano Olivetti, la comunicazione grafica, contribuendo a creare l’immagine dell’azienda con un altro sardo conosciuto nello stesso istituto, Giovanni Pintori. Insieme, producono una serie di manifesti e campagne pubblicitarie fortemente innovative per l’epoca.

Come dicevo, è costretto a scappare prima in Francia e poi negli Stati Uniti, a causa delle persecuzioni razziali e dopo un difficile periodo di adattamento diventa a New York art director in diverse riviste; lavora per periodici di architettura come Interiors The New Pencil Points, che rinnova aprendoli all’influenza del modernismo europeo o per testate di moda (You) e di cucina (American Cookery). In qualità di free lance collabora ad Harper’s BazaarFortune e altre riviste, realizzando fra l’altro, subito dopo la fine della guerra, una serie di reportage grafici sull’Italia.

Come inviato speciale di Fortune torna in Sardegna nel 1952 per documentare gli esiti della campagna antimalarica, lanciata dalla Rockefeller Foundation, con una serie di vivaci tavole a colori pubblicate nel 1953. A New York incontra alcune delle più brillanti personalità creative che contribuiranno non poco a definire anche lo stile delle opere da lui concepite; oltre ai maestri dell’architettura europea che collaborano con Interiors come Gropius, Albers, Breuer, Moholy Nagy frequenta la scena creativa newyorkese dove conosce tra gli altri de Kooning, Kline, Léger, Pollock. Spiccano però tra le sue frequentazioni due personaggi che non hanno certo bisogno di presentazioni: Saul Steinberg, che conosceva già dagli anni di lavoro milanesi, e Le Corbusier con il quale condividerà visioni estetiche e una profonda amicizia dividendo per ben quattro anni lo studio. Nel ’47 torna a Milano dove pensava di trasferirsi ma le condizioni post belliche italiane lo scoraggiano e così nel ’48 compera una casa a Long Island, presso East Hampton, allora ancora abbastanza accessibile, e scopre giocando con i figli sulla spiaggia il sand casting; in pratica la tecnica consiste a grandi linee nell’usare uno stampo negativo ricavato nella sabbia, colando al suo interno un impasto di gesso, sabbia e cemento. Una volta asciutto il manufatto dà forma a un bassorilievo positivo del disegno fatto in precedenza. La tecnica così semplice gli consente di mettere in moto un linguaggio creativo-scultoreo che è prima di tutto grafico. Le forme e i simboli che si possono produrre sono molto semplificati e ne nasce un linguaggio ispirato al post-cubismo di Le Corbusier ma anche a certe forme d’arte centroamericane o africane.

La scoperta di questo linguaggio materico gli permette di realizzare un pannello per lo showroom Olivetti di New York che gli consente una visibilità ulteriore al punto da essere chiamato dalla Harvard University per diventare direttore del Design Workshop. Lo showroom Olivetti sulla Fifth Avenue è un progetto dello studio milanese BBPR (quelli della Torre Velasca) ed è un ambiente ricco di invenzioni dal sapore surrealista: dalle basi-stalagmiti in marmo che sostengono gli oggetti in vendita alle lampade- stalattiti in vetro di Murano, alla grande ruota che unisce il negozio al seminterrato, alla macchina da scrivere collocata fuori, sul marciapiede, a disposizione dei passanti ma è anche lo scenario perfetto per il grande murale dove Nivola diventa a tutti gli effetti lo scultore ideale per l’architettura.

“Il rilievo, lungo 23 metri, è stato realizzato con la tecnica del sand casting e rappresenta una serie di figure semiastratte, divinità che portano nel grembo piccole figure umane e che accolgono il visitatore con ampi gesti di benvenuto. Il grande successo del progetto impone Nivola in campo internazionale come collaboratore ideale per gliarchitetti modernisti, e al tempo stesso sancisce l’affermazione oltreoceano del design e della creatività italiani”. (Citazione Museo Nivola) Fortunatamente il rilievo è ricollocato nel 1973 nello Science Center dell’Università di Harvard, per volontà del progettista Josep Lluís Sert dopo essere stato smontato nel 1969, alla chiusura del negozio Olivetti. C’è un progetto che mi piace raccontare e che si ispira all’arte e alla comunità e che fa tesoro della lezione di etica ed estetica di Adriano Olivetti dove tutto era (peccato usare il passato!) pensato per mettere l’uomo al centro. “Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”, ebbe modo di dire e pensò alla comunità come primo nucleo dello stato democratico, come a un insieme che può essere migliorato anche grazie all’arte e all’estetica messa a disposizione di tutti per migliorarne la vita. Anche per Nivola “a partire dagli anni Cinquanta i temi della comunità, della partecipazione e condivisione acquistano importanza, generando opere profondamente innovative, come il “Pergola village” (1953), un progetto per collegare tutte le case di Orani per mezzo di pergole, e la mostra all’aperto allestita per tre giorni sempre a Orani nel 1958, nella quale il coinvolgimento dei paesani era parte integrante del progetto. In queste opere, al di là della scultura o della pittura, il vero centro del lavoro è la vita collettiva, i rapporti sociali” (Museo Nivola). Mi piace pensare che dietro all’opera di una mente così prolifica ci sia l’uomo che vede nella bellezza semplice, quella della materia grezza, la pietra o la sabbia, la possibilità di “scrivere” qualcosa che resti per molto tempo scolpito nella memoria collettiva di un luogo o di un gruppo di persone. E mi piace pensare che ci siano linguaggi grafici che a volte usano pennelli così grandi da tracciare linee e figure che rappresentano, come nell’arte grafica, l’essenza del messaggio. Credo che in un’epoca in cui si fa un gran parlare di intelligenze artificiali, che ritengo utili per fare progredire un certo tipo di scienze e di cui non temo la concorrenza nel nostro lavoro, mi piacerebbe vedere qualcun altro con la stessa forza creativa che, rimboccandosi fisicamente le maniche, produca con le “proprie” mani delle opere grafiche così potenti ed espressive. In attesa di scoprire un nuovo Nivola, per chi dovesse programmare un viaggio in Sardegna consiglio di visitare il Museo Nivola a Orani, in provincia di Nuoro, che conserva la più importante collezione al mondo dell’artista.

Courtesy: Museo Nivola, “Alle radici della comunicazione visiva italiana” (H.Waibl).

Leggi l’articolo su Touchpoint di Giugno | 2024 n° 05

«Lasciatemi parlare con gioia di un tempo in cui gli inviati speciali non venivano spediti su campi di battaglia, ma su campi di corse e di golf per ritrarvi le belle donne, la mondanità elegante, le raffinatezze della moda. Si viaggiava da una nazione all’altra senza passaporto e senza carta d’identità: una cosa meravigliosa. Esisteva poi una specie di internazionale dell’intelligenza che superava tutte le frontiere e anche gli eventuali dissensi politici. Era un’epoca in cui non si poteva che avere fiducia nell’avvenire […] La guerra cancellò tutto questo. Tornammo subito in Italia, mia moglie ed io. Boccioni, Sironi, Martinetti e Carrà partirono per il fronte cantando: «A morte Franz, viva Oberdan! Io, figlio di garibaldino, non potei partire. Una lettera era giunta alle autorità in cui mi si accusava di germanofilia. La mia collaborazione al Simplicissimus contribuiva a rendermi sospetto. Mi salvai dal confino per l’intervento del vecchio Giulio Ricordi. Rimasi però un vigilato speciale e per tutta la durata della guerra dovetti presentarmi ogni settimana in Questura. Con la guerra era finito il periodo più bello e spensierato della mia vita!»

Ecco cosa scriveva Marcello Dudovich, uno dei più grandi artisti, pittori, cartellonisti del secolo scorso, nel periodo compreso tra il 1915 e il 1818. Triestino di famiglia dalmata, era figlio di un impiegato delle Assicurazioni Generali che era stato garibaldino e di Elisabetta Cadorini, pianista.

In poche righe Marcello Descrive un Europa che sparisce con la grande carneficina della prima guerra mondiale; un Europa che lasciava passare e condivideva non solo i talenti creativi ma anche i pensieri matematici, fisici e ingegneristici. 

È interessante scoprire che la sua attività di inviato speciale per la rivista tedesca Simplicissimus prevedeva una vita agiata tra circoli culturali, corse dei cavalli e ambienti eleganti frequentati dalla buona borghesia. In questo contesto Dudovich elabora un tratto ma soprattutto una rappresentazione della figura femminile di estrema eleganza e ricercatezza che verrà più tardi apprezzata da aziende come La rinascente, Borsalino o dai Grandi Magazzini napoletani Mario Mele.

Dudovich inizia la sua carriera a Milano nel 1897, dove si trasferisce grazie all’amicizia del padre con Leopoldo Metlicovitz quello del manifesto del tunnel del Sempione, all’epoca già affermato pittore e cartellonista, e inizia come litografo alle Officine Grafiche Ricordi. 

I dettagli della sua carriera dicono che dopo un periodo piuttosto intenso a Bologna ed uno piuttosto rapido a Genova rientra a Milano dove diventa a tutti gli effetti un artista affermato realizzando tra il 1907 e il 1913 vari manifesti per le campagne pubblicitarie promosse dai Grandi Magazzini napoletani dei Fratelli Mele. È la consacrazione di uno stile dove la figura femminile emerge dal fondo volutamente neutro per attirare su di sé tutta l’attenzione e dove lo stile e i dettagli dettano per molto tempo la linea dell’eleganza italiana non priva di un’influenza internazionale, frutto dei continui scambi culturali di Dudovich con il mondo “mittel” europeo.

Alla fine della prima guerra mondiale, nel 1920 ritorna a Milano, dove inizia la collaborazione tra le altre, con La Rinascente per la quale, dal 1921 al 1956, realizzerà più di 100 manifesti. Attraverso i cartelloni realizzati Dudovich viene riconosciuto come un’importante figura non solo dal punto di vista grafico, ma anche per la capacità che hanno le sue immagini di comunicare un messaggio che interesserà e influenzerà milioni di persone.

L’eleganza, la mondanità, le corse dei cavalli, gli abiti eleganti e soprattutto la femminilità delle donne rappresentate lo portano ad una collaborazione più che naturale con la rivista La Donna, illustrandola come esempio di raffinatezza ed eleganza. L’artista immortala le donne sdraiate su morbidi divani o in alcove con i loro grandi cappelli, ombrelli, ventagli e gioielli che subiscono però nel periodo prebellico della seconda guerra mondiale un deciso cambiamento a favore di uno stile più sobrio e più militaresco. La nuova produzione di cartelloni perderà il raffinato soggetto femminile per lasciare spazio alla virilità della figura maschile, con corpi muscolosi e pose in tensione che saranno le nuove immagini propagandistiche dell’epoca fascista.

Dudovich ad un certo punto subisce anche il fascino della Libia, scoperta grazie ad un invito nel ’37 di Italo Balbo e gli resterà nel cuore anche dopo la fine del conflitto e dove ritornerà nel 1951 ritrovando nuova energia e nuove ispirazioni al punto da costringere gli ospiti del suo studio a sedute di posa per evocare fittizie situazioni “libiche”, obbligando amici e modelle a indossare improvvisati burnus e a posare per qualche serie di scatti fotografici.

Ci sono di questa sua passione dei bellissimi ritratti e delle opere che suggellano una produzione artistica sconfinata che gli ha permesso di firmare manifesti per i più grandi marchi italiani come Campari, Fiat, Florio, Borsalino e i già citati grandi magazzini La rinascente e Mario Mele.

L’eleganza dei suoi manifesti è ricercata e apprezzata in tutte le mostre che gli vengono dedicate e le aste dove i suoi manifesti vengono presentati sono spesso aggiudicati a prezzi a due cifre. 

La bellezza dello stile di Dudovich non è soltanto nel segno e nell’estrema eleganza delle sue rappresentazioni ma in un linguaggio che spesso anche a distanza di così tanto tempo è perfettamente riconoscibile e differenziante rispetto ad altri artisti della stessa epoca; c’è un passaggio da una visione liberty da Belle Èpoque ad un epoca “moderna” che fa si che le sue figure e i suoi soggetti acquistino via via dinamismo ed emergano per purezza e sintesi grafica in tutta la loro forza espressiva senza mia perdere di vista la classe e l’eleganza.

Courtesy: Archivio Marcello Dudovich, Alle radici della comunicazione Italiana, Heinz Weibl. Grafica Italiana, Giunti.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Maggio | 2024 n° 04

Capita a volte di ritrovarsi a parlare di cose che si sono date per scontate e che abbiamo classificato in un determinato modo riponendole in uno schedario mnemonico lontano e impolverato di lontani studi di storia dell’arte. Poi succede che un’opera o un manifesto riletti con una visione più libera di quella accademica assumano una luce completamente nuova. Prendiamo Fortunato Depero e il suo manifesto sul futurismo e l’arte della pubblicità. Prima di Depero è doverosa una piccola interruzione pubblicitaria per chi non conosce il lavoro che spesso avviene nelle agenzie di pubblicità. Molte volte, infatti, davanti a nuovi progetti strategici o a nuovi clienti si sente dire: dobbiamo elaborare un “manifesto” che serva all’azienda per ricordarsi qual è la vision o la mission aziendale ma anche all’agenzia per riassumere spesso in modo cinematografico quali sono
i valori da comunicare. E poi se va bene, ci scappa anche una bella produzione video da chiamare video corporate o video… manifesto.

Premesso che è sempre utile partire dalle basi per costruire un edificio di comunicazione, quando mi sono imbattuto nel “Manifesto dell’arte pubblicitaria” di Depero, al sorrisetto un po’ sarcastico che mi era comparso ho aggiunto anche una sana dose di attenzione perché, via via che il testo si snocciolava comparivano alcune affermazioni che in fondo in fondo condividevo.

“L’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria… è un’arte decisamente colorata, obbligata alla sintesi; arte fascinatrice che audacemente si piazzò sui muri, sulle facciate dei palazzi, nelle vetrine, nei treni, sui pavimenti dele strade, dappertutto; si tentò perfino di proiettarla sulle nubi; arte viva, moltiplicata, e non isolata e sepolta nei musei; arte libera d’ogni freno accademico – arte gioconda – spavalda – esilarante – ottimista – arte di difficile sintesi, dove l’artista è alle prese con l’autentica creazione”.

Se questo vale genericamente per i creativi o per le agenzie di pubblicità e trasmette tutta l’ingenua energia di un’epoca prebellica in cui spesso si guardava al futuro dal punto di vista del futurismo (movimento) come a qualcosa che avrebbe spazzato via il passato, vale comunque per alcune affermazioni su quanto la pubblicità fosse presente e invasiva già allora. Sulle nubi? Sì, probabilmente si immaginavano modi sempre più d’impatto ma a differenza di oggi, sempre con un certo “gusto” estetico. Poi c’è un’altra parte divertente ma altrettanto fondamentale che conosce bene chi fa il lavoro in agenzia ed è che non basta il proprio talento creativo e strategico se dall’altra parte non c’è un committente pubblico o privato che recepisca in modo altrettanto creativo e competente quanto gli viene proposto.

Ecco quindi, che secondo Depero “un solo industriale è più utile all’arte moderna e alla nazione che 100 critici, che 1000 inutili passatisti”. Avete presente i critici? Quelli che davanti a un progetto creativo cominciano con: sì, ma… oppure sì… però. Gli yes butters che mettono dubbi e impediscono quell’arte gioconda – spavalda – esilarante – ottimista – arte di difficile sintesi. Ecco Depero è stato un esilarante ottimista e nonostante la problematica partecipazione a un periodo storico che l’ha visto cantore fantasista del fascismo e dei messaggi del suo capo, ha rappresentato per la pubblicità e per la grafica un enorme punto di riferimento. L’approccio futurista di rivedere lo spazio della pagina in modo diverso ha portato a creare leprime impaginazioni libere dalle colonne. Posso immaginare quanto devono aver fatto impazzire i tipografi nel creare blocchi in diagonale giustificati. Già nel ’23 aveva elaborato l’uso plastico- architettonico di scritte definendole “architettura tipografica” e dopo aver soggiornato a Parigi per cinque anni e per un breve periodo anche a New York, aveva trovato tra le grandi riviste di moda come Vanity FairEmporiumLa Rivista eVogue gli interlocutori colti per la sua forma di comunicazione grafica.

Poi il pittore-scultore-scrittore inventore della “reinvenzione fabulistica-meccanica della realtà” trova, tra le tante aziende con cui collabora, il terreno fertile per creare per la Campari alcuni dei messaggi e delle immagini più iconiche della storia della comunicazione. Depero con la sua creatività colorata e le sue scritte verticali o diagonali mi ricorda sempre Alighiero Boetti e i suoi dipinti-tessuti con la scanzonata voglia di lanciare dei messaggi ma al contempo di deridere un po’ anche lo spettatore costringendolo a una fatica nel decifrare il messaggio. A Rovereto, La Casa d’Arte Futurista Depero è l’unico museo fondato da un futurista – lo stesso Depero, nel 1957-in base a un progetto dissacrante e profetico: innovazione, ironia, abbattimento di ogni gerarchia nelle arti. Depero, da vero pioniere del design contemporaneo, curò personalmente ogni dettaglio: i mosaici, i mobili, i pannelli dipinti. Una casa museo di un futurista incastrata in un borgo medievale; una giusta provocazione da accostare a una delle sue frasi riportate nel sito che dice:

“Quando vivrò di quello che ho pensato ieri, comincerò ad aver paura di chi mi copia”.

Courtesy: Archivio Fortunato Depero, Casa d’Arte Futurista Depero, Domus, Galleria Campari, personal collection.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Aprile | 2024 n° 03

è difficile esprimere un giudizio morale (e non lo farò) sull’operato di un vero genio della caricatura, pubblicitario cartellonista e interprete internazionale di Vanity Fair America, solo per citare alcune delle varie attività artistiche svolte durante il “ventennio” del secolo scorso e di conseguenza immerso in un’epoca che solo a posteriori siamo riusciti forse a decifrare.

In una bellissima analisi retrospettiva del lavoro di Garretto, firmata da Steven Heller per la rivista Print, il ritratto “ricostruito” attraverso un’intervista all’anziano artista nella sua dimora monegasca è garbato e approfondito quanto basta per comprendere la persona e il suo lavoro a tutto tondo. Partiamo con qualche nota biografica: Paolo Federico Garretto nasce a Napoli nel 1903 da Vito, di origini siciliane, e dalla ginevrina Silvia Wiechmann. Studiò architettura a Roma ma si dedicò, fin da studente, alla grafica iniziando a lavorare come caricaturista e come pittore pubblicitario a Londra e nel 1930 a Parigi dove si distinse come corrispondente e disegnatore per la Gazzetta del Popolo. Le sue caricature attirarono, sempre negli Anni ‘30, le attenzioni di alcuni giornali e riviste straniere, di cui divenne collaboratore. Fu una delle principali firme di Vanity FairThe New Yorker Fortune.


Trasferitosi negli Stati Uniti fu costretto a rientrare in Italia, a seguito dello scoppio della guerra. Nella bella rilettura di Garretto da parte di Heller, il ritratto che emerge è quello di un giovane idealista che per ragioni familiari non aveva potuto partecipare all’attività politica fino a quando un fatto piuttosto cruento non lo costrinse ad aderire al nascente movimento fascista, attratto anche dalla visione “estetica”.

Infatti, si trovò a ridisegnare e a proporre delle divise che avrebbero dovuto migliorare lo stile per così dire “castigato” dall’uso di un solo colore: il nero!

Quando ci si trova dentro alla storia che cambia si possono anche mutare le proprie idee e dopo aver attivamente partecipato all’illustrazione della sua epoca dal punto di vista del regime se ne distaccò rifiutando l’ordine da parte dei nazisti di eseguire caricature di politici americani e alleati. Questo gli costò la deportazione e la prigionia in Ungheria fino a quando non riuscì a fuggire riparando grazie a degli amici milanesi a Parigi. Veniamo all’artista che durante gli anni ‘20 e ‘30 era considerato un gigante internazionale della pubblicità e dell’editoria avvicinato per creatività a Cassandre, prolifico quanto Jean Carlu e brillante come Miguel Covarrubias. Le sue caricature in stile déco riuscivano con la tecnica dell’aerografo a catturare l’essenza dei tratti distintivi dei suoi personaggi composti da elementi grafici e geometrici essenziali. Negli Stati Uniti negli anni ’30, la sua fama era legata alle continue apparizioni su TimeVogueThe New Yorker e soprattutto all’identificazione del suo segno con lo stile di Vanity Fair fino al cambio editoriale del 1938. Nel 1983 quando il nuovo editore, Condé Nast, cercò di rilanciare la testata, sembrò quasi naturale tentare un esperimento di recupero dell’essenza della rivista coinvolgendo vari artisti e cercando di imitare lo stile originale di Garretto ma i tempi erano di fatto cambiati e l’operazione sembrò niente di più di un’impresa nostalgica lontana dai canoni estetici dell’epoca predigitale.

Heller, nella sua preziosissima corrispondenza con l’anziano artista a Montecarlo ci racconta che gli è stato raccontato che prima di laurearsi in architettura a Roma, Garretto aveva seguito il padre a Milano dove faceva il professore e nel capoluogo lombardo aveva frequentato l’Accademia di Brera. Garretto ricorda dei problemi avuti con i suoi professori che non vedevano di buon occhio il suo “strano” modo di interpretare la realtà essendo lui un amante del cubismo e del futurismo (siamo alla fine della Prima Guerra Mondiale). L’attenzione per l’avant-garde di Garretto si vede bene in alcune sue opere e nel modo di rappresentare i suoi personaggi. Garretto fin da bambino disegna caricature ma la sua fama di caricaturista nasce quasi in modo fortuito come lui stesso racconta. Disegnava i suoi ritratti sulle tovagliette del bar; tra questi un ritratto di Pirandello e uno di Marinetti catturarono l’attenzione di Orio Vergani, un giornalista e un poeta che gli chiese di farli su carta e di presentarli a un giornale romano e da lì l’hobby si trasformò in lavoro vero e proprio. Nel ’27 a Parigi incontra il direttore dell’agenzia di pubblicità Dorland Advertising che gli consiglia di recarsi a Londra dove c’erano molte riviste che potevano aver bisogno di immagini a colori. È così che si ritrova a lavorare per The Illustrated London NewsThe GraphicThe Bystander The Tatler. Le caricature di Chamberlain o di Mussolini sono di quest’epoca e nella rivista The Graphic erano attribuite a un nuovo talento “francese”. Essere pubblicato in Inghilterra corrispondeva per l’epoca a essere considerato uno dei migliori disegnatori a livello mondiale. I manifesti pubblicitari non si sottraggono a questa sintesi e così vediamo che l’eleganza del manifesto per Lord viene anche accentuato dal cappello in testa a una figura rarefatta dove però il segno del naso e dell’occhio (o monocolo) sono le iniziali stesse della parola Lord.

Quello che mi attrae nell’opera di Garretto è anche la sua forza espressiva e la sua capacità nella semplificazione delle forme, di trovare i tratti salienti e caratteristici delle persone ritratte.

Per esempio, il Mussolini “robot” con pochissimi segni riesce a essere ispirato alla visione futuristica di Metropolis ma nello stesso tempo, accenna alla rappresentazione militare del soggetto, dove l’elmetto di guerra calcato in testa nelle immagini retoriche del Duce, viene reinterpretato in calotta robotica. La sua attività di pubblicitario e cartellonista si snoda in parallelo, come spesso succedeva agli interpreti del secolo scorso, alla sua attività di artista per l’editoria; di lui sono rimasti celebri alcuni manifesti per Lambretta in Italia ma soprattutto tante campagne pubblicitarie per il mercato francese e per brand quali Air France. Per l’eleganza e i richiami al periodo magico del futurismo e del déco, credo sia doveroso ricordarlo in chiave attuale come suggerisce Heller e magari apprezzare nuovamente la sintesi espressiva e la pulizia formale delle sue opere. Giusto per sottolineare l’importanza della sua opera anche come pubblicitario, nel 1956 la Federazione Italiana della Pubblicità gli conferì la medaglia d’oro.

Courtesy of Print Magazine by Steven Heller and Alle radici della comunicazione visiva by Heinz Waibl.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Marzo | 2024 n° 02

Questa è una storia poco conosciuta in Italia di un grafico e artista del Novecento che in modo discreto, elegante e intelligente ha lasciato tracce e segni del suo passaggio nei vari contenenti in cui ha lavorato. Partiamo dall’inizio: nasce a Budapest nel 1926 dove si diploma nel 1946 all’Accademia di Belle Arti. Nello stesso anno studia e lavora nello studio di Almos Jaschik, oltre a lavorare come fotografo freelance. Nel 1948, all’età di 22 anni, si trasferisce con i suoi genitori a Montevideo e subito dopo a Buenos Aires diventando una delle figure di spicco della cultura grafica ed estetica dell’Argentina, paese che a differenza delle altre nazioni sudamericane assorbe in quegli anni un flusso di emigrati europei offrendo ad artisti e creativi, carta bianca come nel caso conosciutissimo di Hugo Pratt, il papà di Corto Maltese, che a Buenos Aires in quegli anni produce i suoi primi lavori. 

Gonda inizia lavorando per l’agenzia Lintas e poi per l’agenzia Ricardo de Luca, dove ridisegna il marchio Aerolíneas Argentinas e dopo qualche tempo fonda la Gonda Diseno. Nel 1958, su richiesta di Tomás Maldonado, Tomas Gonda si trasferisce in Germania, per unirsi al gruppo di insegnanti della Hochschule für Gestaltung di Ulm, dove Otl Aicher, Hans Gugelot e lo stesso Maldonado erano rettori. 

Inizia così un periodo in cui la cultura estetica sviluppata in Argentina incrocia la scuola tedesca e dove il nuovo approccio didattico di HfG oltre a stimolare la ricerca all’interno della scuola, confronta i principi della “gute form” con le reali esigenze del design, facendo proprie le leggi del mercato, dell’automazione industriale e del progresso tecnico.

Con questo bagaglio internazionale acquisito tra i due continenti, Gonda nel ’67 si trasferisce a Milano dove di lì a poco diventerà prima Direttore Creativo presso Upim, allora parte de La Rinascente e poi Direttore creativo alla Pirelli. Insieme a Pierluigi Cerri firma il progetto grafico di Casabella quando a dirigere la rivista c’era Tomás Maldonado, proprio lo stesso che l’aveva invitato a Ulm. Nel 1979 però sente che il posto ideale per esprimere la sua visione internazionale della grafica dallo stile modernista è la New York dove erano già al lavoro i grandi designer come Massimo Vignelli. New York lo accoglie come aveva accolto nel ’37, György Kepes e László Moholy-Nagy suoi connazionali ungheresi. 

Philip B. Meggs nel suo libro Tomás Gonda: A Life of Design (1993), pubblicato dalla Anderson Gallery, Virginia Commonwealth University, ricostruisce nei dettagli l’emozionante vita di Gonda che dopo essersi unito al Plumb Design Group si afferma finalmente costituendo la società Gonda Design.

L’amico Vignelli, nella prefazione al libro, scrive:

«La vita di Tomás Gonda era giusta, tranquilla quando necessario, brusca quando richiesto. Il suo talento e la sua eleganza si esprimevano nel suo lavoro attraverso la cura con cui sceglieva la tipografia e la selezione dei colori in contrapposizione all’uso indiscriminato delle sfumature. Lavorando con lui, si è appresa l’importanza relativa del design grafico in un contesto globale. La sua intelligenza è sempre stata capace di ridurre l’egoismo a livelli ragionevoli. In fin dei conti il ​​design non è altro che la soluzione a un problema e non è arte. Ciò che rende interessante la soluzione è l’intelligenza”.

In Argentina, la diffusione del libro coincise con un’importante mostra al Museo d’Arte Moderna, dove furono esposti i suoi lavori grafici, i suoi collage e i suoi dipinti geometrici con carte piegate, effetti di luce e colore. Le sue metafore visive, l’uso dei colori primari (“mi piace usare il colore quando voglio comunicare il colore”) e delle forme geometriche sono riconoscibili per l’uso appassionato della forma quadrata e apportarono grande vitalità al disegno della grafica dell’epoca.

Nel suo aspetto da gentiluomo, Tomás Gonda ha detto dei suoi gusti quotidiani:

“Sogno in bianco e nero, poi potrò colorare i miei sogni”.

Per lui “tutto era un esempio, un atto di progettazione: il suo ambiente, il suo lavoro, le sue matite, i suoi occhiali da sole, i suoi abiti, le sue cravatte, le sue scarpe, tutto il suo universo amato”, come lo descrive Carlos Méndez Mosquera.

Cittadino del mondo, ha coltivato anche una passione per la grafica orientale che lo ha portato a lavorare su diversi pezzi di design per l’Istituto di Cultura Argentino-Giapponese, tra cui la rivista Bunka. Il Giappone, per Gonda, era fonte di esaltata ispirazione. Ammirava la cultura tradizionale giapponese per la sua combinazione di design e forma negli aspetti della vita quotidiana. In un testo scritto anni dopo dallo stesso Gonda, racconta del Giappone, che visitò in una serie di occasioni: «La mia consapevolezza dell’estetica giapponese risale a circa trent’anni fa, quando vivevo in Argentina.

“Libri, oggetti e amici giapponesi hanno sempre avuto accesso alla mia vita.”

Se pensiamo che Gonda ha lavorato per marchi simbolo di un’epoca come Herman Miller, Pirelli, Lufhtansa, Wilkhahn Sitzmöbel e il progetto per l’HfG di Ulm in vari continenti cavalcando ogni volta l’energia innovatrice e modernista, ci possiamo rendere conto della posizione privilegiata di Gonda rispetto al nascente sviluppo della professione. 

Un testimone saggio che ha saputo esercitare la disciplina del design in ogni Paese al momento giusto e ha interpretato come diceva giustamente Vignelli, il pensiero che “in fin dei conti il ​​design non è altro che la soluzione a un problema e non è arte. Ciò che rende interessante la soluzione è l’intelligenza”.

Courtesy of Gràffica, H.Waibl, Alle radici della comunicazione visiva italiana. Casabella 421, Direzione Thomàs Maldonado, copertina Tomàs Gonda, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Febbraio | 2024 n° 01

Secondo Mario Piazza, questa è la definizione che più si addice al lavoro di Franco Balan e che oltre a condividere mi permette di aprire la solita parentesi di ammirazione per tutti quelli che a modo loro in questo mestiere di grafici e comunicatori visivi, sono andati controcorrente. Davanti al loro bivio artistico, come diceva Robert Frost hanno scelto “the road not taken”. Mi sono sempre piaciuti i veri bastian contrari oppure gli under dog come verrebbero definiti oggi, perché ho sempre pensato che fuori dai luoghi comuni creativi, scusate il gioco di parole, ci siano i luoghi creativi “speciali”. Balan è uno di quegli esempi in cui l’energia espressiva originale riscatta la superficie piatta del foglio di carta che sia esso dedicato ad un poster o ad una rivista; la pulizia nordica o svizzera si mescola con l’esperienza che arriva da est e dai paesi che nel secolo scorso stavano dall’altra parte della cortina di ferro.

Nel 1954 a Varsavia conosce e fa esperienza con Tomaszewski, Majewski e Grabowski, nel 1975 avvia una esperienza didattica con scolaresche delle elementari che poi sviluppa nel tempo e in altre occasioni. Nel 1978 partecipa al concorso dell’Onu a Ginevra e vince il primo premio per la grafica dell’anno. Nel 1985 ritorna a Varsavia per una serie di lezioni presso l’Akademia Szutky Pieknich. Progetta e realizza il marchio e la segnaletica del Parco Nazionale del Gran Paradiso e realizza il logo de l’Espace Mont-Blanc. Suoi lavori sono esposti al Museo Villanow di Varsavia, al museo di Lathi in Finlandia e al MoMA di New York. Le biografie come sempre tracciano percorsi a posteriori che fanno sembrare tutto logico e lineare ma non fanno vedere le sfumature così rivedendo la cultura visiva degli illustratori dell’est del secolo scorso mi è sembrato di intravvedere nel lavoro artistico di Balan un collegamento estetico e concettuale. L’energia che vedevo nelle opere che dovevano aggirare la censura erano il frutto di una grande ricerca estetica e concettuale dove la visione surreale sostituiva quella reale. “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, è un esempio di come si poteva immaginare un mondo di fantasia in grado di superare i confini del reale e della censura.

Nel mondo immaginato da Balan ci vedo una espressività alternativa alla grafica così come viene intesa che inserisce la pittura in modo legittimo nel percorso della caratteri tipografici ci fosse il pennello e al posto delle campiture colorate ci fossero i tubi dei colori acrilici. Vorrei poter vedere dal vivo le sue serigrafie dei personaggi della Storia Valdostana composta da una carrellata di ritratti di personaggi medievali interpretati in modo magistrale con la tecnica della serigrafia.

Quasi tutti i suoi poster (più di tremila) hanno la medesima cifra stilistica ma non sono mai uguali tra loro. Le esposizioni che Franco Balan preparava per il piccolissimo comune di La Salle, alle pendici del Monte Bianco, sono stati un appuntamento tradizionale rilevante per la grafica degli ultimi anni. Vi hanno esposto, tra gli altri, Albe e Lica Steiner, Roland Topor, Milton Glaser, Shigeo Fukuda, UG Sato, Bruno Munari, Franco Grignani, Roberto Sambonet, Armando Testa. La sua storia e la sua tecnica, così poco celebrata, andrebbe studiata perché in un epoca di intelligenze artificiali alla base del suo lavoro c’è oltre all’intelligenza e la creatività artigianale del pittore anche la giocosità di creare immagini dall’espressività unica.

Mondadori/Electa gli ha dedicato un bellissimo libro per i suoi cinquant’anni di attività riassunto in questa sintesi:

“Franco Balan non ha voluto fare una mostra diligente e celebrativa, con un ufficiale “catalogo generale delle opere” ma essendo una figura ostinatamente attiva, non noioso collezionista di se stesso, maestro della sorpresa figurale per l’occasione ha approntato un lavoro denso e compatto e tutto riferito alle culture cosiddette “basse” e ai repertori figurativi popolari, etnici se non addirittura folklorici”.

Più di cinquant’anni mantenendo uno “spirito anomalo” connettendo, però, più mondi grafici e visuali da una posizione geografica che può sembrare lontana dal centro ma che invece ha visto valicare i propri passi dalle più svariate culture del nord e del sud e forse Balan, dalla Val d’Aosta è rimasto sintonizzato più di altri su una Alliance Grafique Internazionale più che dalla egocentrica milanesità.

Courtesy of H. Waibl: Alle radici della comunicazione visiva, AIAP CDPG, Il mezzo secolo di F.Balan / Electa

Leggi l’articolo su Touchpoint di Gennaio | 2023 – 2024 n° 10