Ho visto arrivare la Milano da bere prima ancora che nei poster di RSCG, a firma di Marco Mignani, dai finestrini del treno che entrava in Stazione Centrale. Avevo il mio portfolio monumentale e cartaceo che mi trascinavo dalla provincia del Nord Est e da poco a Milano si respirava quell’aria da dopolavoro brillante davanti ai primi spritz, in cui tutti ti davano consigli nel bene e nel male sulle agenzie da frequentare. Conoscevo già Milano perché avevo seguito, per alcuni importanti clienti, shooting fotografici o allestimenti fieristici e quindi conoscevo uno dei posti che mi permetteva ogni volta di fare scouting tra libri di grafica e pubblicità: la libreria Salto. Nel seminterrato sulla “circonvalla” interna c’era un autentico tesoro di libri americani, inglesi e tedeschi e tornavo a casa sempre più carico di quando partivo.

Non sapevo però che a pochi metri di distanza ci fosse uno dei migliori ristoranti di Milano e anche uno dei migliori esempi di immagine coordinata totalizzante dove architettura, design e grafica contribuivano a rendere “el Prosper” (il nome del ristorante) uno degli esempi di comunicazione meneghina più coerenti e goliardici in un’epoca in cui i creativi, i grafici e gli architetti vestivano abiti di buona fattura, indossavano la camicia e la cravatta e spesso fumavano la pipa.

Silvio Coppola è stato tutto questo: un architetto capace di mettere il suo talento a disposizione di discipline collegate tra loro da elementi come la creatività, le rigide regole delle proporzioni auree e la ricerca innovativa.

Un po’ di biografia tratta da un articolo a firma di Maria Luisa Ghianda per Doppiozero che mi ha fatto scoprire un lato che non conoscevo di lui: Silvio Coppola nasce a Brindisi nel 1920, ma sceglie Milano per vivere e per lavorare e al suo Politecnico si laurea nel 1957. Membro attivo delle associazioni di design tra le più prestigiose, quali l’ADI (Associazione per il Disegno Industriale), l’Art Directors Club (di cui progetta il famoso logo), l’AGI (Alliance Graphique Internationale), dove ricopre per due anni l’incarico di Vicepresidente, e l’AIGA di New York, è stato il curatore dell’immagine di prestigiose industrie.


Il lavoro di Coppola l’ho incontrato varie volte nel design e nell’arredamento ma non conoscevo questa divertente storia che sta dietro a “el Prosper” e qui devo dire che nella descrizione di Ghianda compare quella Milano che ho intravvisto poco prima di quella “da bere” e che mi piaceva molto di più. “Quando il Prospero era in vena (il che accadeva di sovente, stimolata la sua vena dalle goliardiche richieste dell’appassionata clientela) inscenava un vero e proprio spettacolo di cabaret vestendo i panni di un mordace e verboso sacerdote che predicava in dialetto bergamasco, pronto a dispensare sferzanti omelie all’uditorio, contrappuntate da pungenti analisi socio-politiche sui fatti di cronaca del momento. E quei panni non li vestiva solo metaforicamente, indossava davvero ‘la toniga e ul capèl da prēt’, finendo per somigliare, così abbigliato, al don Camillo di Guareschi interpretato al cinema da Fernandel, proprio tra gli Anni Cinquanta e Sessanta. È indubbio che la cucina de el Prosper fosse una delle migliori della Milano d’allora, ma quelle prediche la rendevano unica e ancora più appetitosa. L’adepto più illustre (però raramente presente in sala perché troppo serio per pender parte alla baldoria) di quella brancaleonica combriccola era Silvio Coppola (1920-1985), il fedelissimo di “don Diego”, progettista dell’immagine coordinata e dell’architettura d’interni del suo mitico ristorante, evolutosi da mescita di vini a tavola calda nel 1882, per poi diventare el Prosper negli Anni Sessanta del Novecento”. A tavola si concludevano contratti o si iniziavano progetti e spesso il luogo era un elemento importante per entrambi i risultati.

“Nella corporate identity totalizzante di el Prosper, Coppola sperimenterà per la prima volta la sua poetica della fusione tra architettura, graphic e product design, che andrà poi a confluire nel decalogo dell’ED (Exhibition Design). Questo gruppo di ricerca, di progettazione e di divulgazione, da lui fondato nel 1968 con l’obiettivo della convergenza tra le metodologie progettuali del graphic design con quelle dell’industrial design, vedrà l’adesione dei maggiori grafici di allora, da Giulio Confalonieri a Franco Grignani, da Bruno Munari a Pino Tovaglia (Mario Bellini vi si aggiungerà nel 1970)”.

La cosa che sorprende è la qualità del pensiero che sta dietro a un simile progetto: a partire dal logo con le iniziali di Diego Prospero tutto ha una sua logica coerenza. I materiali “moderni” come il cemento e l’acciaio inseriti in un palazzo storico, il frigorifero nella bussola d’ingresso con lo stesso elemento grafico del biglietto da visita, il logo riprodotto in vari materiali sia cartacei che sulle stoviglie. Tutta questa coerenza estetica insieme agli arredi disegnati da Coppola e prodotti da Bernini lasciano spazio anche alla goliardia estetica e come per il personaggio del ristoratore compare in parallelo all’immagine coordinata unsecondo elemento grafico che viene rappresentato da una mela che si sbizzarrisce tra manifesti e inviti vari a rallegrare la comunicazione del posto a volte mordendosi o fumando oppure ammiccando e sbadigliando.

Un’intuizione estetica che libera l’artista dallo schema rigido dell’impaginazione e delle regole architetturali. Questi poster oggi introvabili se nona prezzi folli, serigrafati su superfici metalliche, raccontano la possibilità di scherzare e di rimanere leggeri anche in giacca e cravatta.

Se il lavoro per “el Prosper” è per un solo committente, i progetti editoriali creati per Feltrinelli sono molto più sfidanti per un creativo anche perché un pubblico ampio di lettori può decretare il successo o meno di un autore. Ci sono i bellissimi lavori dalle copertine ispirate da singoli contenuti dove il lettering si muove con una propria energia non seguendo nessuno schema predisposto. Qualche similitudine con alcuni artisti russi degli anni ‘20 o dei futuristi nostrani ma anche una ricerca di “rompere gli schemi” tipici della ricerca grafica degli anni ’60.

Quello che però ho trovato geniale è il lavoro fatto per la collana “Franchi Narratori” dove l’idea alla base di tutto sta letteralmente “alla base”. E così il nome della collana (bellissimo) diventa più grande e presente del titolo e dell’autore e viene messo a piè pagina quasi a garantire l’appartenenza a un tipo di narrativa per tutte le opere della collana. Inoltre, l’uso del bianco e nero e di un solo colore, il rosso come ha fatto Albe Steiner prima di Coppola, creano una forza simbolica fortissima. Oggi la logica marchettara porterebbe a dire che il titolo della collana in basso verrebbe coperto nell’esposizione su alcuni scaffali e di sicuro verrebbe bocciato ma per fortuna ci sono state e sempre ci saranno delle eccezioni; ne sa qualcosa Penguin Books con le sue copertine puramente grafiche scollegate da tutto e da tutte le logiche.
Mi piace molto il lavoro di Coppola perché ci ho visto una costanza non solo estetica fatta da uno stile riconoscibile ma concettuale. In una sedia fatta da un solo tubo piegato chiamata Gru, perché si regge
su una gamba sola o in una lampada che sembra soltanto una tenda da finestra come nelle copertine che ribaltano il principio della rigidità o mettono sottosopra gli schemi correnti ho visto anche la “leggerezza” della ricerca creativa che è una dote più unica che rara e che nel clima meneghino degli anni ’60 coniugava il cabaret, la musica, il teatro con l’energia industriale che ha segnato l’epoca del miracolo italiano. Anche nella grafica.

Courtesy: Maria Luisa Ghianda, Doppiozero, Archivio Coppola / Fondazione Ragghianti, Heinz Waibl, Alle radici della comunicazione visiva.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Luglio | 2024 n° 06

In Sardegna, di uno che sta con le mani in mano si dice: “abarrai con i manusu in gruxi”, che letteralmente vuol dire “stare con le mani in croce”. Di Costantino Nivola, figlio di muratore e noto per la sua sconfinata produzione creativa, non si può certo dire che sia rimasto con le mani in mano. Anzi, le mani le ha usate insieme alle sabbie, alla calce, al gesso, alle pietre che ha scolpito, oltre a tutti gli strumenti classici di un art director e pittore che dalla sua amata Orani, in provincia di Sassari, è arrivato a New York per creare delle opere di rara bellezza.


La storia di Nivola incuriosisce per l’incredibile sequenza d’incontri con esponenti del mondo della cultura, dell’arte e dell’architettura e per le vicende personali che lo costringono ad abbandonare l’Italia in preda al delirio delle leggi razziali insieme a Ruth Guggenheim, tedesca di origine ebraica, sua compagna di corso all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, sposata nel ’38. Nivola era arrivato a Milano con una borsa di studio dopo aver imparato il mestiere del padre muratore e aver fatto l’apprendista del pittore Mario Delitala a Sassari e provato una carriera artistica indipendente senza grandi riscontri nell’isola.
Alla formazione artistica milanese, dopo il diploma all’ISIA di Monza, segue un periodo come direttore creativo della sezione grafica dell’Olivetti. Dal 1936 al 1938, a Milano sperimenta, grazie alla lungimiranza di Adriano Olivetti, la comunicazione grafica, contribuendo a creare l’immagine dell’azienda con un altro sardo conosciuto nello stesso istituto, Giovanni Pintori. Insieme, producono una serie di manifesti e campagne pubblicitarie fortemente innovative per l’epoca.

Come dicevo, è costretto a scappare prima in Francia e poi negli Stati Uniti, a causa delle persecuzioni razziali e dopo un difficile periodo di adattamento diventa a New York art director in diverse riviste; lavora per periodici di architettura come Interiors The New Pencil Points, che rinnova aprendoli all’influenza del modernismo europeo o per testate di moda (You) e di cucina (American Cookery). In qualità di free lance collabora ad Harper’s BazaarFortune e altre riviste, realizzando fra l’altro, subito dopo la fine della guerra, una serie di reportage grafici sull’Italia.

Come inviato speciale di Fortune torna in Sardegna nel 1952 per documentare gli esiti della campagna antimalarica, lanciata dalla Rockefeller Foundation, con una serie di vivaci tavole a colori pubblicate nel 1953. A New York incontra alcune delle più brillanti personalità creative che contribuiranno non poco a definire anche lo stile delle opere da lui concepite; oltre ai maestri dell’architettura europea che collaborano con Interiors come Gropius, Albers, Breuer, Moholy Nagy frequenta la scena creativa newyorkese dove conosce tra gli altri de Kooning, Kline, Léger, Pollock. Spiccano però tra le sue frequentazioni due personaggi che non hanno certo bisogno di presentazioni: Saul Steinberg, che conosceva già dagli anni di lavoro milanesi, e Le Corbusier con il quale condividerà visioni estetiche e una profonda amicizia dividendo per ben quattro anni lo studio. Nel ’47 torna a Milano dove pensava di trasferirsi ma le condizioni post belliche italiane lo scoraggiano e così nel ’48 compera una casa a Long Island, presso East Hampton, allora ancora abbastanza accessibile, e scopre giocando con i figli sulla spiaggia il sand casting; in pratica la tecnica consiste a grandi linee nell’usare uno stampo negativo ricavato nella sabbia, colando al suo interno un impasto di gesso, sabbia e cemento. Una volta asciutto il manufatto dà forma a un bassorilievo positivo del disegno fatto in precedenza. La tecnica così semplice gli consente di mettere in moto un linguaggio creativo-scultoreo che è prima di tutto grafico. Le forme e i simboli che si possono produrre sono molto semplificati e ne nasce un linguaggio ispirato al post-cubismo di Le Corbusier ma anche a certe forme d’arte centroamericane o africane.

La scoperta di questo linguaggio materico gli permette di realizzare un pannello per lo showroom Olivetti di New York che gli consente una visibilità ulteriore al punto da essere chiamato dalla Harvard University per diventare direttore del Design Workshop. Lo showroom Olivetti sulla Fifth Avenue è un progetto dello studio milanese BBPR (quelli della Torre Velasca) ed è un ambiente ricco di invenzioni dal sapore surrealista: dalle basi-stalagmiti in marmo che sostengono gli oggetti in vendita alle lampade- stalattiti in vetro di Murano, alla grande ruota che unisce il negozio al seminterrato, alla macchina da scrivere collocata fuori, sul marciapiede, a disposizione dei passanti ma è anche lo scenario perfetto per il grande murale dove Nivola diventa a tutti gli effetti lo scultore ideale per l’architettura.

“Il rilievo, lungo 23 metri, è stato realizzato con la tecnica del sand casting e rappresenta una serie di figure semiastratte, divinità che portano nel grembo piccole figure umane e che accolgono il visitatore con ampi gesti di benvenuto. Il grande successo del progetto impone Nivola in campo internazionale come collaboratore ideale per gliarchitetti modernisti, e al tempo stesso sancisce l’affermazione oltreoceano del design e della creatività italiani”. (Citazione Museo Nivola) Fortunatamente il rilievo è ricollocato nel 1973 nello Science Center dell’Università di Harvard, per volontà del progettista Josep Lluís Sert dopo essere stato smontato nel 1969, alla chiusura del negozio Olivetti. C’è un progetto che mi piace raccontare e che si ispira all’arte e alla comunità e che fa tesoro della lezione di etica ed estetica di Adriano Olivetti dove tutto era (peccato usare il passato!) pensato per mettere l’uomo al centro. “Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”, ebbe modo di dire e pensò alla comunità come primo nucleo dello stato democratico, come a un insieme che può essere migliorato anche grazie all’arte e all’estetica messa a disposizione di tutti per migliorarne la vita. Anche per Nivola “a partire dagli anni Cinquanta i temi della comunità, della partecipazione e condivisione acquistano importanza, generando opere profondamente innovative, come il “Pergola village” (1953), un progetto per collegare tutte le case di Orani per mezzo di pergole, e la mostra all’aperto allestita per tre giorni sempre a Orani nel 1958, nella quale il coinvolgimento dei paesani era parte integrante del progetto. In queste opere, al di là della scultura o della pittura, il vero centro del lavoro è la vita collettiva, i rapporti sociali” (Museo Nivola). Mi piace pensare che dietro all’opera di una mente così prolifica ci sia l’uomo che vede nella bellezza semplice, quella della materia grezza, la pietra o la sabbia, la possibilità di “scrivere” qualcosa che resti per molto tempo scolpito nella memoria collettiva di un luogo o di un gruppo di persone. E mi piace pensare che ci siano linguaggi grafici che a volte usano pennelli così grandi da tracciare linee e figure che rappresentano, come nell’arte grafica, l’essenza del messaggio. Credo che in un’epoca in cui si fa un gran parlare di intelligenze artificiali, che ritengo utili per fare progredire un certo tipo di scienze e di cui non temo la concorrenza nel nostro lavoro, mi piacerebbe vedere qualcun altro con la stessa forza creativa che, rimboccandosi fisicamente le maniche, produca con le “proprie” mani delle opere grafiche così potenti ed espressive. In attesa di scoprire un nuovo Nivola, per chi dovesse programmare un viaggio in Sardegna consiglio di visitare il Museo Nivola a Orani, in provincia di Nuoro, che conserva la più importante collezione al mondo dell’artista.

Courtesy: Museo Nivola, “Alle radici della comunicazione visiva italiana” (H.Waibl).

Leggi l’articolo su Touchpoint di Giugno | 2024 n° 05

«Lasciatemi parlare con gioia di un tempo in cui gli inviati speciali non venivano spediti su campi di battaglia, ma su campi di corse e di golf per ritrarvi le belle donne, la mondanità elegante, le raffinatezze della moda. Si viaggiava da una nazione all’altra senza passaporto e senza carta d’identità: una cosa meravigliosa. Esisteva poi una specie di internazionale dell’intelligenza che superava tutte le frontiere e anche gli eventuali dissensi politici. Era un’epoca in cui non si poteva che avere fiducia nell’avvenire […] La guerra cancellò tutto questo. Tornammo subito in Italia, mia moglie ed io. Boccioni, Sironi, Martinetti e Carrà partirono per il fronte cantando: «A morte Franz, viva Oberdan! Io, figlio di garibaldino, non potei partire. Una lettera era giunta alle autorità in cui mi si accusava di germanofilia. La mia collaborazione al Simplicissimus contribuiva a rendermi sospetto. Mi salvai dal confino per l’intervento del vecchio Giulio Ricordi. Rimasi però un vigilato speciale e per tutta la durata della guerra dovetti presentarmi ogni settimana in Questura. Con la guerra era finito il periodo più bello e spensierato della mia vita!»

Ecco cosa scriveva Marcello Dudovich, uno dei più grandi artisti, pittori, cartellonisti del secolo scorso, nel periodo compreso tra il 1915 e il 1818. Triestino di famiglia dalmata, era figlio di un impiegato delle Assicurazioni Generali che era stato garibaldino e di Elisabetta Cadorini, pianista.

In poche righe Marcello Descrive un Europa che sparisce con la grande carneficina della prima guerra mondiale; un Europa che lasciava passare e condivideva non solo i talenti creativi ma anche i pensieri matematici, fisici e ingegneristici. 

È interessante scoprire che la sua attività di inviato speciale per la rivista tedesca Simplicissimus prevedeva una vita agiata tra circoli culturali, corse dei cavalli e ambienti eleganti frequentati dalla buona borghesia. In questo contesto Dudovich elabora un tratto ma soprattutto una rappresentazione della figura femminile di estrema eleganza e ricercatezza che verrà più tardi apprezzata da aziende come La rinascente, Borsalino o dai Grandi Magazzini napoletani Mario Mele.

Dudovich inizia la sua carriera a Milano nel 1897, dove si trasferisce grazie all’amicizia del padre con Leopoldo Metlicovitz quello del manifesto del tunnel del Sempione, all’epoca già affermato pittore e cartellonista, e inizia come litografo alle Officine Grafiche Ricordi. 

I dettagli della sua carriera dicono che dopo un periodo piuttosto intenso a Bologna ed uno piuttosto rapido a Genova rientra a Milano dove diventa a tutti gli effetti un artista affermato realizzando tra il 1907 e il 1913 vari manifesti per le campagne pubblicitarie promosse dai Grandi Magazzini napoletani dei Fratelli Mele. È la consacrazione di uno stile dove la figura femminile emerge dal fondo volutamente neutro per attirare su di sé tutta l’attenzione e dove lo stile e i dettagli dettano per molto tempo la linea dell’eleganza italiana non priva di un’influenza internazionale, frutto dei continui scambi culturali di Dudovich con il mondo “mittel” europeo.

Alla fine della prima guerra mondiale, nel 1920 ritorna a Milano, dove inizia la collaborazione tra le altre, con La Rinascente per la quale, dal 1921 al 1956, realizzerà più di 100 manifesti. Attraverso i cartelloni realizzati Dudovich viene riconosciuto come un’importante figura non solo dal punto di vista grafico, ma anche per la capacità che hanno le sue immagini di comunicare un messaggio che interesserà e influenzerà milioni di persone.

L’eleganza, la mondanità, le corse dei cavalli, gli abiti eleganti e soprattutto la femminilità delle donne rappresentate lo portano ad una collaborazione più che naturale con la rivista La Donna, illustrandola come esempio di raffinatezza ed eleganza. L’artista immortala le donne sdraiate su morbidi divani o in alcove con i loro grandi cappelli, ombrelli, ventagli e gioielli che subiscono però nel periodo prebellico della seconda guerra mondiale un deciso cambiamento a favore di uno stile più sobrio e più militaresco. La nuova produzione di cartelloni perderà il raffinato soggetto femminile per lasciare spazio alla virilità della figura maschile, con corpi muscolosi e pose in tensione che saranno le nuove immagini propagandistiche dell’epoca fascista.

Dudovich ad un certo punto subisce anche il fascino della Libia, scoperta grazie ad un invito nel ’37 di Italo Balbo e gli resterà nel cuore anche dopo la fine del conflitto e dove ritornerà nel 1951 ritrovando nuova energia e nuove ispirazioni al punto da costringere gli ospiti del suo studio a sedute di posa per evocare fittizie situazioni “libiche”, obbligando amici e modelle a indossare improvvisati burnus e a posare per qualche serie di scatti fotografici.

Ci sono di questa sua passione dei bellissimi ritratti e delle opere che suggellano una produzione artistica sconfinata che gli ha permesso di firmare manifesti per i più grandi marchi italiani come Campari, Fiat, Florio, Borsalino e i già citati grandi magazzini La rinascente e Mario Mele.

L’eleganza dei suoi manifesti è ricercata e apprezzata in tutte le mostre che gli vengono dedicate e le aste dove i suoi manifesti vengono presentati sono spesso aggiudicati a prezzi a due cifre. 

La bellezza dello stile di Dudovich non è soltanto nel segno e nell’estrema eleganza delle sue rappresentazioni ma in un linguaggio che spesso anche a distanza di così tanto tempo è perfettamente riconoscibile e differenziante rispetto ad altri artisti della stessa epoca; c’è un passaggio da una visione liberty da Belle Èpoque ad un epoca “moderna” che fa si che le sue figure e i suoi soggetti acquistino via via dinamismo ed emergano per purezza e sintesi grafica in tutta la loro forza espressiva senza mia perdere di vista la classe e l’eleganza.

Courtesy: Archivio Marcello Dudovich, Alle radici della comunicazione Italiana, Heinz Weibl. Grafica Italiana, Giunti.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Maggio | 2024 n° 04

Capita a volte di ritrovarsi a parlare di cose che si sono date per scontate e che abbiamo classificato in un determinato modo riponendole in uno schedario mnemonico lontano e impolverato di lontani studi di storia dell’arte. Poi succede che un’opera o un manifesto riletti con una visione più libera di quella accademica assumano una luce completamente nuova. Prendiamo Fortunato Depero e il suo manifesto sul futurismo e l’arte della pubblicità. Prima di Depero è doverosa una piccola interruzione pubblicitaria per chi non conosce il lavoro che spesso avviene nelle agenzie di pubblicità. Molte volte, infatti, davanti a nuovi progetti strategici o a nuovi clienti si sente dire: dobbiamo elaborare un “manifesto” che serva all’azienda per ricordarsi qual è la vision o la mission aziendale ma anche all’agenzia per riassumere spesso in modo cinematografico quali sono
i valori da comunicare. E poi se va bene, ci scappa anche una bella produzione video da chiamare video corporate o video… manifesto.

Premesso che è sempre utile partire dalle basi per costruire un edificio di comunicazione, quando mi sono imbattuto nel “Manifesto dell’arte pubblicitaria” di Depero, al sorrisetto un po’ sarcastico che mi era comparso ho aggiunto anche una sana dose di attenzione perché, via via che il testo si snocciolava comparivano alcune affermazioni che in fondo in fondo condividevo.

“L’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria… è un’arte decisamente colorata, obbligata alla sintesi; arte fascinatrice che audacemente si piazzò sui muri, sulle facciate dei palazzi, nelle vetrine, nei treni, sui pavimenti dele strade, dappertutto; si tentò perfino di proiettarla sulle nubi; arte viva, moltiplicata, e non isolata e sepolta nei musei; arte libera d’ogni freno accademico – arte gioconda – spavalda – esilarante – ottimista – arte di difficile sintesi, dove l’artista è alle prese con l’autentica creazione”.

Se questo vale genericamente per i creativi o per le agenzie di pubblicità e trasmette tutta l’ingenua energia di un’epoca prebellica in cui spesso si guardava al futuro dal punto di vista del futurismo (movimento) come a qualcosa che avrebbe spazzato via il passato, vale comunque per alcune affermazioni su quanto la pubblicità fosse presente e invasiva già allora. Sulle nubi? Sì, probabilmente si immaginavano modi sempre più d’impatto ma a differenza di oggi, sempre con un certo “gusto” estetico. Poi c’è un’altra parte divertente ma altrettanto fondamentale che conosce bene chi fa il lavoro in agenzia ed è che non basta il proprio talento creativo e strategico se dall’altra parte non c’è un committente pubblico o privato che recepisca in modo altrettanto creativo e competente quanto gli viene proposto.

Ecco quindi, che secondo Depero “un solo industriale è più utile all’arte moderna e alla nazione che 100 critici, che 1000 inutili passatisti”. Avete presente i critici? Quelli che davanti a un progetto creativo cominciano con: sì, ma… oppure sì… però. Gli yes butters che mettono dubbi e impediscono quell’arte gioconda – spavalda – esilarante – ottimista – arte di difficile sintesi. Ecco Depero è stato un esilarante ottimista e nonostante la problematica partecipazione a un periodo storico che l’ha visto cantore fantasista del fascismo e dei messaggi del suo capo, ha rappresentato per la pubblicità e per la grafica un enorme punto di riferimento. L’approccio futurista di rivedere lo spazio della pagina in modo diverso ha portato a creare leprime impaginazioni libere dalle colonne. Posso immaginare quanto devono aver fatto impazzire i tipografi nel creare blocchi in diagonale giustificati. Già nel ’23 aveva elaborato l’uso plastico- architettonico di scritte definendole “architettura tipografica” e dopo aver soggiornato a Parigi per cinque anni e per un breve periodo anche a New York, aveva trovato tra le grandi riviste di moda come Vanity FairEmporiumLa Rivista eVogue gli interlocutori colti per la sua forma di comunicazione grafica.

Poi il pittore-scultore-scrittore inventore della “reinvenzione fabulistica-meccanica della realtà” trova, tra le tante aziende con cui collabora, il terreno fertile per creare per la Campari alcuni dei messaggi e delle immagini più iconiche della storia della comunicazione. Depero con la sua creatività colorata e le sue scritte verticali o diagonali mi ricorda sempre Alighiero Boetti e i suoi dipinti-tessuti con la scanzonata voglia di lanciare dei messaggi ma al contempo di deridere un po’ anche lo spettatore costringendolo a una fatica nel decifrare il messaggio. A Rovereto, La Casa d’Arte Futurista Depero è l’unico museo fondato da un futurista – lo stesso Depero, nel 1957-in base a un progetto dissacrante e profetico: innovazione, ironia, abbattimento di ogni gerarchia nelle arti. Depero, da vero pioniere del design contemporaneo, curò personalmente ogni dettaglio: i mosaici, i mobili, i pannelli dipinti. Una casa museo di un futurista incastrata in un borgo medievale; una giusta provocazione da accostare a una delle sue frasi riportate nel sito che dice:

“Quando vivrò di quello che ho pensato ieri, comincerò ad aver paura di chi mi copia”.

Courtesy: Archivio Fortunato Depero, Casa d’Arte Futurista Depero, Domus, Galleria Campari, personal collection.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Aprile | 2024 n° 03

è difficile esprimere un giudizio morale (e non lo farò) sull’operato di un vero genio della caricatura, pubblicitario cartellonista e interprete internazionale di Vanity Fair America, solo per citare alcune delle varie attività artistiche svolte durante il “ventennio” del secolo scorso e di conseguenza immerso in un’epoca che solo a posteriori siamo riusciti forse a decifrare.

In una bellissima analisi retrospettiva del lavoro di Garretto, firmata da Steven Heller per la rivista Print, il ritratto “ricostruito” attraverso un’intervista all’anziano artista nella sua dimora monegasca è garbato e approfondito quanto basta per comprendere la persona e il suo lavoro a tutto tondo. Partiamo con qualche nota biografica: Paolo Federico Garretto nasce a Napoli nel 1903 da Vito, di origini siciliane, e dalla ginevrina Silvia Wiechmann. Studiò architettura a Roma ma si dedicò, fin da studente, alla grafica iniziando a lavorare come caricaturista e come pittore pubblicitario a Londra e nel 1930 a Parigi dove si distinse come corrispondente e disegnatore per la Gazzetta del Popolo. Le sue caricature attirarono, sempre negli Anni ‘30, le attenzioni di alcuni giornali e riviste straniere, di cui divenne collaboratore. Fu una delle principali firme di Vanity FairThe New Yorker Fortune.


Trasferitosi negli Stati Uniti fu costretto a rientrare in Italia, a seguito dello scoppio della guerra. Nella bella rilettura di Garretto da parte di Heller, il ritratto che emerge è quello di un giovane idealista che per ragioni familiari non aveva potuto partecipare all’attività politica fino a quando un fatto piuttosto cruento non lo costrinse ad aderire al nascente movimento fascista, attratto anche dalla visione “estetica”.

Infatti, si trovò a ridisegnare e a proporre delle divise che avrebbero dovuto migliorare lo stile per così dire “castigato” dall’uso di un solo colore: il nero!

Quando ci si trova dentro alla storia che cambia si possono anche mutare le proprie idee e dopo aver attivamente partecipato all’illustrazione della sua epoca dal punto di vista del regime se ne distaccò rifiutando l’ordine da parte dei nazisti di eseguire caricature di politici americani e alleati. Questo gli costò la deportazione e la prigionia in Ungheria fino a quando non riuscì a fuggire riparando grazie a degli amici milanesi a Parigi. Veniamo all’artista che durante gli anni ‘20 e ‘30 era considerato un gigante internazionale della pubblicità e dell’editoria avvicinato per creatività a Cassandre, prolifico quanto Jean Carlu e brillante come Miguel Covarrubias. Le sue caricature in stile déco riuscivano con la tecnica dell’aerografo a catturare l’essenza dei tratti distintivi dei suoi personaggi composti da elementi grafici e geometrici essenziali. Negli Stati Uniti negli anni ’30, la sua fama era legata alle continue apparizioni su TimeVogueThe New Yorker e soprattutto all’identificazione del suo segno con lo stile di Vanity Fair fino al cambio editoriale del 1938. Nel 1983 quando il nuovo editore, Condé Nast, cercò di rilanciare la testata, sembrò quasi naturale tentare un esperimento di recupero dell’essenza della rivista coinvolgendo vari artisti e cercando di imitare lo stile originale di Garretto ma i tempi erano di fatto cambiati e l’operazione sembrò niente di più di un’impresa nostalgica lontana dai canoni estetici dell’epoca predigitale.

Heller, nella sua preziosissima corrispondenza con l’anziano artista a Montecarlo ci racconta che gli è stato raccontato che prima di laurearsi in architettura a Roma, Garretto aveva seguito il padre a Milano dove faceva il professore e nel capoluogo lombardo aveva frequentato l’Accademia di Brera. Garretto ricorda dei problemi avuti con i suoi professori che non vedevano di buon occhio il suo “strano” modo di interpretare la realtà essendo lui un amante del cubismo e del futurismo (siamo alla fine della Prima Guerra Mondiale). L’attenzione per l’avant-garde di Garretto si vede bene in alcune sue opere e nel modo di rappresentare i suoi personaggi. Garretto fin da bambino disegna caricature ma la sua fama di caricaturista nasce quasi in modo fortuito come lui stesso racconta. Disegnava i suoi ritratti sulle tovagliette del bar; tra questi un ritratto di Pirandello e uno di Marinetti catturarono l’attenzione di Orio Vergani, un giornalista e un poeta che gli chiese di farli su carta e di presentarli a un giornale romano e da lì l’hobby si trasformò in lavoro vero e proprio. Nel ’27 a Parigi incontra il direttore dell’agenzia di pubblicità Dorland Advertising che gli consiglia di recarsi a Londra dove c’erano molte riviste che potevano aver bisogno di immagini a colori. È così che si ritrova a lavorare per The Illustrated London NewsThe GraphicThe Bystander The Tatler. Le caricature di Chamberlain o di Mussolini sono di quest’epoca e nella rivista The Graphic erano attribuite a un nuovo talento “francese”. Essere pubblicato in Inghilterra corrispondeva per l’epoca a essere considerato uno dei migliori disegnatori a livello mondiale. I manifesti pubblicitari non si sottraggono a questa sintesi e così vediamo che l’eleganza del manifesto per Lord viene anche accentuato dal cappello in testa a una figura rarefatta dove però il segno del naso e dell’occhio (o monocolo) sono le iniziali stesse della parola Lord.

Quello che mi attrae nell’opera di Garretto è anche la sua forza espressiva e la sua capacità nella semplificazione delle forme, di trovare i tratti salienti e caratteristici delle persone ritratte.

Per esempio, il Mussolini “robot” con pochissimi segni riesce a essere ispirato alla visione futuristica di Metropolis ma nello stesso tempo, accenna alla rappresentazione militare del soggetto, dove l’elmetto di guerra calcato in testa nelle immagini retoriche del Duce, viene reinterpretato in calotta robotica. La sua attività di pubblicitario e cartellonista si snoda in parallelo, come spesso succedeva agli interpreti del secolo scorso, alla sua attività di artista per l’editoria; di lui sono rimasti celebri alcuni manifesti per Lambretta in Italia ma soprattutto tante campagne pubblicitarie per il mercato francese e per brand quali Air France. Per l’eleganza e i richiami al periodo magico del futurismo e del déco, credo sia doveroso ricordarlo in chiave attuale come suggerisce Heller e magari apprezzare nuovamente la sintesi espressiva e la pulizia formale delle sue opere. Giusto per sottolineare l’importanza della sua opera anche come pubblicitario, nel 1956 la Federazione Italiana della Pubblicità gli conferì la medaglia d’oro.

Courtesy of Print Magazine by Steven Heller and Alle radici della comunicazione visiva by Heinz Waibl.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Marzo | 2024 n° 02

Questa è una storia poco conosciuta in Italia di un grafico e artista del Novecento che in modo discreto, elegante e intelligente ha lasciato tracce e segni del suo passaggio nei vari contenenti in cui ha lavorato. Partiamo dall’inizio: nasce a Budapest nel 1926 dove si diploma nel 1946 all’Accademia di Belle Arti. Nello stesso anno studia e lavora nello studio di Almos Jaschik, oltre a lavorare come fotografo freelance. Nel 1948, all’età di 22 anni, si trasferisce con i suoi genitori a Montevideo e subito dopo a Buenos Aires diventando una delle figure di spicco della cultura grafica ed estetica dell’Argentina, paese che a differenza delle altre nazioni sudamericane assorbe in quegli anni un flusso di emigrati europei offrendo ad artisti e creativi, carta bianca come nel caso conosciutissimo di Hugo Pratt, il papà di Corto Maltese, che a Buenos Aires in quegli anni produce i suoi primi lavori. 

Gonda inizia lavorando per l’agenzia Lintas e poi per l’agenzia Ricardo de Luca, dove ridisegna il marchio Aerolíneas Argentinas e dopo qualche tempo fonda la Gonda Diseno. Nel 1958, su richiesta di Tomás Maldonado, Tomas Gonda si trasferisce in Germania, per unirsi al gruppo di insegnanti della Hochschule für Gestaltung di Ulm, dove Otl Aicher, Hans Gugelot e lo stesso Maldonado erano rettori. 

Inizia così un periodo in cui la cultura estetica sviluppata in Argentina incrocia la scuola tedesca e dove il nuovo approccio didattico di HfG oltre a stimolare la ricerca all’interno della scuola, confronta i principi della “gute form” con le reali esigenze del design, facendo proprie le leggi del mercato, dell’automazione industriale e del progresso tecnico.

Con questo bagaglio internazionale acquisito tra i due continenti, Gonda nel ’67 si trasferisce a Milano dove di lì a poco diventerà prima Direttore Creativo presso Upim, allora parte de La Rinascente e poi Direttore creativo alla Pirelli. Insieme a Pierluigi Cerri firma il progetto grafico di Casabella quando a dirigere la rivista c’era Tomás Maldonado, proprio lo stesso che l’aveva invitato a Ulm. Nel 1979 però sente che il posto ideale per esprimere la sua visione internazionale della grafica dallo stile modernista è la New York dove erano già al lavoro i grandi designer come Massimo Vignelli. New York lo accoglie come aveva accolto nel ’37, György Kepes e László Moholy-Nagy suoi connazionali ungheresi. 

Philip B. Meggs nel suo libro Tomás Gonda: A Life of Design (1993), pubblicato dalla Anderson Gallery, Virginia Commonwealth University, ricostruisce nei dettagli l’emozionante vita di Gonda che dopo essersi unito al Plumb Design Group si afferma finalmente costituendo la società Gonda Design.

L’amico Vignelli, nella prefazione al libro, scrive:

«La vita di Tomás Gonda era giusta, tranquilla quando necessario, brusca quando richiesto. Il suo talento e la sua eleganza si esprimevano nel suo lavoro attraverso la cura con cui sceglieva la tipografia e la selezione dei colori in contrapposizione all’uso indiscriminato delle sfumature. Lavorando con lui, si è appresa l’importanza relativa del design grafico in un contesto globale. La sua intelligenza è sempre stata capace di ridurre l’egoismo a livelli ragionevoli. In fin dei conti il ​​design non è altro che la soluzione a un problema e non è arte. Ciò che rende interessante la soluzione è l’intelligenza”.

In Argentina, la diffusione del libro coincise con un’importante mostra al Museo d’Arte Moderna, dove furono esposti i suoi lavori grafici, i suoi collage e i suoi dipinti geometrici con carte piegate, effetti di luce e colore. Le sue metafore visive, l’uso dei colori primari (“mi piace usare il colore quando voglio comunicare il colore”) e delle forme geometriche sono riconoscibili per l’uso appassionato della forma quadrata e apportarono grande vitalità al disegno della grafica dell’epoca.

Nel suo aspetto da gentiluomo, Tomás Gonda ha detto dei suoi gusti quotidiani:

“Sogno in bianco e nero, poi potrò colorare i miei sogni”.

Per lui “tutto era un esempio, un atto di progettazione: il suo ambiente, il suo lavoro, le sue matite, i suoi occhiali da sole, i suoi abiti, le sue cravatte, le sue scarpe, tutto il suo universo amato”, come lo descrive Carlos Méndez Mosquera.

Cittadino del mondo, ha coltivato anche una passione per la grafica orientale che lo ha portato a lavorare su diversi pezzi di design per l’Istituto di Cultura Argentino-Giapponese, tra cui la rivista Bunka. Il Giappone, per Gonda, era fonte di esaltata ispirazione. Ammirava la cultura tradizionale giapponese per la sua combinazione di design e forma negli aspetti della vita quotidiana. In un testo scritto anni dopo dallo stesso Gonda, racconta del Giappone, che visitò in una serie di occasioni: «La mia consapevolezza dell’estetica giapponese risale a circa trent’anni fa, quando vivevo in Argentina.

“Libri, oggetti e amici giapponesi hanno sempre avuto accesso alla mia vita.”

Se pensiamo che Gonda ha lavorato per marchi simbolo di un’epoca come Herman Miller, Pirelli, Lufhtansa, Wilkhahn Sitzmöbel e il progetto per l’HfG di Ulm in vari continenti cavalcando ogni volta l’energia innovatrice e modernista, ci possiamo rendere conto della posizione privilegiata di Gonda rispetto al nascente sviluppo della professione. 

Un testimone saggio che ha saputo esercitare la disciplina del design in ogni Paese al momento giusto e ha interpretato come diceva giustamente Vignelli, il pensiero che “in fin dei conti il ​​design non è altro che la soluzione a un problema e non è arte. Ciò che rende interessante la soluzione è l’intelligenza”.

Courtesy of Gràffica, H.Waibl, Alle radici della comunicazione visiva italiana. Casabella 421, Direzione Thomàs Maldonado, copertina Tomàs Gonda, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Febbraio | 2024 n° 01

Secondo Mario Piazza, questa è la definizione che più si addice al lavoro di Franco Balan e che oltre a condividere mi permette di aprire la solita parentesi di ammirazione per tutti quelli che a modo loro in questo mestiere di grafici e comunicatori visivi, sono andati controcorrente. Davanti al loro bivio artistico, come diceva Robert Frost hanno scelto “the road not taken”. Mi sono sempre piaciuti i veri bastian contrari oppure gli under dog come verrebbero definiti oggi, perché ho sempre pensato che fuori dai luoghi comuni creativi, scusate il gioco di parole, ci siano i luoghi creativi “speciali”. Balan è uno di quegli esempi in cui l’energia espressiva originale riscatta la superficie piatta del foglio di carta che sia esso dedicato ad un poster o ad una rivista; la pulizia nordica o svizzera si mescola con l’esperienza che arriva da est e dai paesi che nel secolo scorso stavano dall’altra parte della cortina di ferro.

Nel 1954 a Varsavia conosce e fa esperienza con Tomaszewski, Majewski e Grabowski, nel 1975 avvia una esperienza didattica con scolaresche delle elementari che poi sviluppa nel tempo e in altre occasioni. Nel 1978 partecipa al concorso dell’Onu a Ginevra e vince il primo premio per la grafica dell’anno. Nel 1985 ritorna a Varsavia per una serie di lezioni presso l’Akademia Szutky Pieknich. Progetta e realizza il marchio e la segnaletica del Parco Nazionale del Gran Paradiso e realizza il logo de l’Espace Mont-Blanc. Suoi lavori sono esposti al Museo Villanow di Varsavia, al museo di Lathi in Finlandia e al MoMA di New York. Le biografie come sempre tracciano percorsi a posteriori che fanno sembrare tutto logico e lineare ma non fanno vedere le sfumature così rivedendo la cultura visiva degli illustratori dell’est del secolo scorso mi è sembrato di intravvedere nel lavoro artistico di Balan un collegamento estetico e concettuale. L’energia che vedevo nelle opere che dovevano aggirare la censura erano il frutto di una grande ricerca estetica e concettuale dove la visione surreale sostituiva quella reale. “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, è un esempio di come si poteva immaginare un mondo di fantasia in grado di superare i confini del reale e della censura.

Nel mondo immaginato da Balan ci vedo una espressività alternativa alla grafica così come viene intesa che inserisce la pittura in modo legittimo nel percorso della caratteri tipografici ci fosse il pennello e al posto delle campiture colorate ci fossero i tubi dei colori acrilici. Vorrei poter vedere dal vivo le sue serigrafie dei personaggi della Storia Valdostana composta da una carrellata di ritratti di personaggi medievali interpretati in modo magistrale con la tecnica della serigrafia.

Quasi tutti i suoi poster (più di tremila) hanno la medesima cifra stilistica ma non sono mai uguali tra loro. Le esposizioni che Franco Balan preparava per il piccolissimo comune di La Salle, alle pendici del Monte Bianco, sono stati un appuntamento tradizionale rilevante per la grafica degli ultimi anni. Vi hanno esposto, tra gli altri, Albe e Lica Steiner, Roland Topor, Milton Glaser, Shigeo Fukuda, UG Sato, Bruno Munari, Franco Grignani, Roberto Sambonet, Armando Testa. La sua storia e la sua tecnica, così poco celebrata, andrebbe studiata perché in un epoca di intelligenze artificiali alla base del suo lavoro c’è oltre all’intelligenza e la creatività artigianale del pittore anche la giocosità di creare immagini dall’espressività unica.

Mondadori/Electa gli ha dedicato un bellissimo libro per i suoi cinquant’anni di attività riassunto in questa sintesi:

“Franco Balan non ha voluto fare una mostra diligente e celebrativa, con un ufficiale “catalogo generale delle opere” ma essendo una figura ostinatamente attiva, non noioso collezionista di se stesso, maestro della sorpresa figurale per l’occasione ha approntato un lavoro denso e compatto e tutto riferito alle culture cosiddette “basse” e ai repertori figurativi popolari, etnici se non addirittura folklorici”.

Più di cinquant’anni mantenendo uno “spirito anomalo” connettendo, però, più mondi grafici e visuali da una posizione geografica che può sembrare lontana dal centro ma che invece ha visto valicare i propri passi dalle più svariate culture del nord e del sud e forse Balan, dalla Val d’Aosta è rimasto sintonizzato più di altri su una Alliance Grafique Internazionale più che dalla egocentrica milanesità.

Courtesy of H. Waibl: Alle radici della comunicazione visiva, AIAP CDPG, Il mezzo secolo di F.Balan / Electa

Leggi l’articolo su Touchpoint di Gennaio | 2023 – 2024 n° 10

Mario Pompei l’ho scoperto a Bologna, tra i banchi di una fiera del libro, attraverso un volume edito da Electa per il Museo dell’Illustrazione di Ferrara. La curatrice della pubblicazione e all’epoca Presidente del museo ferrarese, Paola Pallottino mi ha aperto gli occhi su un altro capitolo che per certi versi mi ero “perso” della grande storia della comunicazione grafica italiana. Mario Pompei non è veramente un“pubblicitario” come abbiamo considerato alcuni cartellonisti del secolo scorso e si potrebbe definire più un illustratore che attraverso la sua attività di scenografo ha creato i suoi cartelloni pubblicitari per le opere teatrali da lui realizzate.

Pompei nacque a Terni nel 1903 ma visse sempre a Roma dimostrando da subito una precoce vocazione per le arti figurative e grazie alle sue doti e probabilmente al fertile ambiente familiare (il papà era giornalista a La tribuna) si mise in luce da giovanissimo, realizzando, poco più che sedicenne, la scenografia per il “Teatro dei Piccoli” con Vittorio Podrecca.Accanto a una carriera brillante come scenografo, Pompei portò avanti una attività di illustratore che spaziava dai libri per l’infanzia con uno stile conveniente all’epoca in cui viveva ma elaborando anche un suo personalissimo segno, molto forte e stilizzato, che venne applicato in varie collaborazioni per riviste illustrate dell’epoca. Si vedano a questo proposito le testatine per “Play” e “Le Scimmie e lo specchio”, le illustrazioni per Cuor d’oroRagazzi d’ItaliaNovellaComoediaNoi e il MondoIl DrammaLe Grandi firmeLa DonnaVita Femminile e le copertine per CordeliaIl Fanciullo Il giornalino della Domenica.

Le figure eleganti e sottili rappresentano un punto di congiunzione particolarmente originale tra il mondo della moda e il mondo delle marionette; le figure filiformi delle “mannequin” sembrano danzare e sfilare senza fili in modo allegro e scanzonato. I segni e il lettering nelle riproduzioni in bianco e nero hanno una precisa collocazione temporale nel mondo a cavallo tra Decò e Futurismo ma contengono anche una certa leggerezza fanciullescaquasi si trattasse di raccontare una fiaba a degli adulti un po’ bambini. Oltre all’attività di illustratore, Pompei si è dedicato alla creazione di una serie bellissima di copertine per libri spesso realizzate a due colori. La tecnica ricorda quella forte ed espressiva della xilografia nordica.

Ci sono delle immagini che hanno una forza intrinseca e che attraverso la “sottrazione” degli elementi rendono la crudezza del messaggio ancora più espressivo.

La grafica lavora con le tinte piatte ma grazie al taglio delle immagini crea delle profondità e delle inquadrature in diagonale di forte suggestione, nella cover “Hispano” mi sembra di ritrovare Ferenc Pinter e non importa se non si sono mai incontrati ma c’è in comune una ricerca di purezza grafica che rende questo artista degli ani ’30 così moderno e contemporaneo. In un’altra copertina, i soldati tedeschi che marciano con le maschere antigas sembrano usciti dal film di AlanParker The Wall dei Pink Floyd. Come illustratore ha la capacità di raccontare con il suo stile, dai colori primari e dalle forme geometriche, un mondo che richiama il Futurismo italiano di Depero e i caratteri tipografici sembrano “saltellare” solidi e pieni come tante marionette di un teatro per bambini.


C’è un giocoso modo di comporre e vedere la realtà dello spettacolo e mi sembra quasi che un altro collegamento grafico lo si possa azzardare con ilgrande Armando Testa accostando il poster delle Peripezie di Pinco e Pallino con la famosa campagna Carpano dove vediamo il Re Carpano sempre di profilo in compagnia dei Napoleone o dei Giuseppe Verdi. Eugenio Manzato nella sua analisi sui manifesti di Pompei per il teatro, traccia comunque una linea di lavori eseguiti seguendo i canoni estetici e narrativi tipici dei cartelloni pubblicitari degli spettacoli teatrali scorgendo però tra le varie opere un autentico gioiello che ho trovato a colori solo in una vecchia piattaforma digitale di gallerie del manifesto e che mi ha colpito particolarmente. Anche Manzato definisce “geniale” il manifesto per lo spettacolo “Bolle di sapone” andato in scena nel 1928 al teatro Valle di Roma e per il quale Pompei realizzò le scenografie. 

“La composizione si presenta di grande scioltezza, quasi seguendo il ritmo compassato della musica; ma è soprattutto la rappresentazione di un musicista nero che suona il sassofono che non può fare a meno di stupire a quella data. Il cantante di jazz, il primo film sonoro in cui Al Jolson suona il sax truccato da nero, è solo dell’anno prima. Presupponendo che Pompei non li avesse visti va comunque registrato un aggiornamento di gusto eccezionale”.

Il manifesto ha una sua forza e modernità che per certi versi ricorda i migliori esempi dell’epoca in cui all’eleganza di Dudovich si contrapponeva lo stile originale e d’impatto dei cartelloni di Cappiello o Nizzoli. L’opera di Pompei è così ricca e originale che meriterebbe uno spazio più ampio ma quello che mi ha colpito del suo percorso artistico è la messa in scena continua attraverso l’illustrazione della realtà quasi come se la sua vita artistica fosse un solo grande spettacolo o una favola da raccontare con gentilezza a un pubblico di tutte le età. Teatro dell’illustrazione o illustrazione del teatro? Il calembour mi ricorda il lavoro di Jean Cocteau, che amava disegnare quello che scriveva e che della sua attività disse: “Je écris mon destin, et je dessine mon ecriture”.

Courtesy of Paola Pallottino, Electa, Museo dell’illustrazione Personal Collection

Leggi l’articolo su Touchpoint di Novembre | 2023 n° 09

Ho rubato questa definizione dalla chiusura delle note biografiche di Leonardo Sinisgalli nel libro “Giulio Confalonieri. Opere Grafiche”, edito da Franco Maria Ricci. Giulio Confalonieri è il quarto dei miei moschettieri, un novello D’Artagnan; ho già scritto degli altri tre, cominciando da Ilio Negri che per primo si associò a Confalonieri per fondare uno studio diventato qualche anno più tardi CNTP con Pino Tovaglia e Michele Provinciali. Confalonieri è raccontato così bene da Sinisgalli che mi viene voglia di citare direttamente la sua descrizione. Anche perché non posso minimamente competere con il poeta ingegnere, come venne definito Sinisgalli, laureato in Ingegneria Elettronica e Industriale e che rinunciò all’invito di Enrico Fermi a entrare nel gruppo dei “Ragazzi di via Panisperna”, per intraprendere la carriera letteraria. Di lui ho già parlato in quanto fu nel secondo dopoguerra direttore artistico della Pirelli e della rivista Civiltà delle macchine incrociando il percorso creativo dei più grandi e interessanti artisti del secondo dopoguerra italiano.

Ma veniamo a Giulio Confalonieri e alla foto di copertina del libro di Franco Maria Ricci che lo ritrae leggermente nascosto dalla mano sul viso lasciando intravedere un sorriso garbato, uno sguardo intenso, i capelli mossi e un vestito di taglio classico estremamente elegante che lo fa assomigliare in qualche modo a Gianni Agnelli. Le opere grafiche di Confalonieri sono significative per il taglio netto, spesso in bianco e nero e raccolgono gli insegnamenti estetici della scuola svizzera ma sarebbe semplicistico parlare solo di questo perché la produzione creativa è semplicemente la conseguenza di un pensiero che si è tradotto in uno stile di vita che ha disegnato l’intera opera di Confalonieri rendendolo difficile da inquadrare soltanto come grafico o designer.

Ecco cosa scriveva di lui Sinisgalli che lo ha frequentato nello studio di via Lanzone: «vive solitario in un lucido Bauhaus nello storico centro della città (Milano); per questo forse, siede ogni notte in un ristorante indifferente, di fronte ad una differente ascoltatrice».

L’elenco delle attività che con il lavoro non sembrano avere un diretto contatto comincia con Cintura Nera di Karate Secondo Dan, Medaglia d’oro di prima classe della Croce Rossa Italiana, giocatore in serie A con il Rugby Club Milano, nazionale nella squadra italiana alle Universiadi, diplomato in violino al Conservatorio di Milano: una personalità a dir poco eclettica che si completa nella formazione scolastica tra Svizzera, Germania e Italia. Tralascio il racconto di gran parte della incredibile esperienza umana, per mancanza di spazio, per concentrarmi su quella che è maggiormente collegata al lavoro.

«Confalonieri viene chiamato a Torino: basteranno due colazioni con l’Avvocato Agnelli per definire e decidere come, dove e quando realizzare “Italia ‘61”, mostra nazionale della quale gli verrà affidato il progetto della Sezione Visuale. L’ingegner Valletta (il papà della 500) intervenuto al battesimo, si esibirà nella storica domanda: “cosa mi rappresenta?” Aveva ragione! Il dubbio intorno alla metafisica non è mai estinto! Negli anni successivi lo troviamo inventore della veste grafica dell’Expo di Torino, città surreale dove l’Architetto Giò Ponti e la Fondazione Agnelli non furono esenti da stimoli».

E per continuare con Giò Ponti che di Confalonieri diceva: «Lo conoscevo per quello che faceva, ne individuavo lo stile nel gigantismo di certe estatiche ruote della Pirelli, nella prospettiva smaterializzante dei bianchi e dei neri, lo rintracciavo in quei liberi segni in cui la volubilità della fantasia riesce a prender corpo». Ho il piacere di avere le prime copie della rivista FMR di Franco Maria Ricci dove il carattere Bodoni viene in qualche modo beatificato dal lavoro congiunto di Confalonieri e Ricci ed è interessante come l’editore parmense abbia optato per un carattere tipografico che nel ‘700 venne disegnato da Giambattista Bodoni, nato a Saluzzo nel 1740 ma diventato grazie a Ferdinando, Duca di Parma, direttore della Tipografia Reale dell’allora Ducato.

Una storia editoriale dove i due hanno versato la loro cultura dell’immagine e la loro innegabile eleganza creando davvero una delle più belle riviste del mondo. Le storie che si incrociano portano con sé un segno di continuità della ricerca estetica e come sottolineava Franco Maria Ricci nella presentazione dell’opera di Confalonieri, anche condivisione di “bellezza” intesa nel senso più ampio. Confalonieri ha saputo rimanere “classico” rompendo quasi sempre le regole visive; di lui posso solo dire che prima delle sue opere come la famosa Agenda Universale per Tecno, il calendario oggetto per Nava Design o la copertina per la monografia Esso, le lettere non erano state tagliate, raggruppate, sovrapposte in modo altrettanto drammatico ed efficace senza però perdere la nitidezza e l’equilibrio formale di un gusto estetico rassicurante. La lista dei progetti e dei clienti per cui Confalonieri ha lavorato è infinita: ha lavorato per quasi tutti brand di arredamento e design da Tecno a Cassina, ha curato il progetto per Ferrari a partire da F40, ha creato il marchio EDF, la società energetica francese, per Pirelli ha inventato un linguaggio distintivo per le comunicazioni pubblicitarie.

Ha lavorato per Italsider, Roche, Breda, Eni, Ratti, Knoll, solo per citarne alcuni. I premi credo li abbia vinti tutti! È stato membro dell’Associazione Italiana per l’Industrial Design, e, honoris causa, dell’Art Directors Club di New York, socio della esclusiva Alliance Graphique, dell’American Institute of Graphic Arts, il cui profeta Lubalin gli dedicherà un tributo sulla rivista U&LC. È stato membro della Triennale di Milano varie volte, ha vinto un Compasso d’Oro per il suo intervento alla XV Triennale d’Arte di Milano. Ha viaggiato tantissimo tra i libri da lui pubblicati ce n’è uno che mi ha affascinato tantissimo che si intitola “Towns” (Idea Books International, Milano, 1976) dove la cultura dell’osservazione di quanto ci circonda viene visto attraverso i simboli fotografici. Un modo per viaggiare senza cadere negli stereotipi mantenendo quella capacità estrema di rendere elegante anche un “normale” graffito urbano.

Courtesy of FMR, Private Collection

Leggi l’articolo su Touchpoint di Ottobre | 2023 n° 08

Si potrebbe iniziare citando il Dottor Jekyll e Mister Hyde per raccontare questa fantastica storia di sdoppiamento non della personalità ma dell’attività creativa di Luigi Broggini. Dovrebbe altresì far riflettere i pubblicitari di oggi, così convinti di essere al centro del mondo creativo, a mantenere un sano distacco dai “manufatti” creativi da loro prodotti attraverso le loro agenzie in relazione alla “creatività” vera e totale degli artisti. Con questo non voglio dire che ci sia una creatività di serie A o di serie B ma probabilmente il percepito negli anni Sessanta del secolo scorso da parte dei maestri dell’arte contemporanea che si cimentarono con la pubblicità, era proprio questo: l’arte, quella attività che permette di esprimere concetti o immagini in totale libertà, non assoggettata a una committenza è totalmente diversa dalla pubblicità che implica l’accettazione di vincoli che siano essi un prodotto, una marca o un cliente committente. Il risultato di questo modo di pensare, ancora oggi porta alcuni artisti a non firmare i loro lavori pubblicitari o come in passato a creare degli pseudonimi, forse vergognandosi dell’attività di una attività commerciale oppure considerando la comunicazione pubblicitaria come un divertissement non degno di essere rivendicato.

La storia di Leon Garù, bellissimo nome di fantasia scelto da Luigi Broggini è illuminante; prendiamo per esempio l’artista, scultore e disegnatore affermato, nato a Cittiglio in provincia di Varese nel 1908 e cresciuto alla scuola di Adolfo Wildt all’Accademia di Brera. Wildt è stato un personaggio controverso e geniale che grazie a una committenza principalmente tedesca sviluppò inizialmente uno stile “gotico” che si evolse dopo una crisi artistica culminata con la distruzione e la mutilazione di alcune sue opere, in uno dei grandi scultori espressionisti del Novecento.

C’è da ipotizzare che crescere con un maestro così combattuto sia stata un’esperienza estremamente complicata e infatti dopo un soggiorno a Parigi nel ‘29 e dopo la scoperta di Degas, Broggini comincia un percorso autonomo che lo porta a sviluppare uno stile anticlassico e realistico, evidente nei pezzi con i quali partecipò nel 1939 alla seconda mostra del gruppo “Corrente” a Milano. Il movimento artistico “Corrente”, attivo nel capoluogo lombardo fra il 1938 e il 1943 in contrapposizione alle posizioni teoriche della Scuola romana e del Gruppo dei Sei di Torino, si divise in due filoni, pur condividendo l’avversione per i richiami all’ordine della cultura ufficiale. Un gruppo propugnava un taglio più realistico nella rappresentazione pittorica: rientravano in questo gruppo, fra gli altri, Renato Guttuso, Aligi Sassu ed Ernesto Treccani. Altri – come Renato Birolli, Bruno Cassinari, Giuseppe Migneco – si sentivano invece più vicini alle esperienze espressionistiche europee. Aderirono al movimento anche Lucio Fontana, Emilio Vedova e Giacomo Manzù anche se non pienamente riconducibili entro l’una o l’altra tendenza. La prima mostra del gruppo si tenne al Palazzo della Permanente di Milano nel 1939; la fama di “Corrente” si consolidò poi con opere sentite di rottura, fortemente provocatorie, come “Crocifissione” di Renato Guttuso (Galleria d’Arte Moderna di Roma) e “Deposizione” di Bruno Cassinari (Galleria d’Arte Moderna di Milano). Il Manifesto dei pittori e scultori, nel quale gli artisti del gruppo rivendicavano la funzione rivoluzionaria della pittura, costituì un punto di partenza fondamentale per la storia dell’arte italiana del dopoguerra nonostante la soppressione dell’attività da parte del regime fascista nel ’43. È interessante scoprire come il rapporto con altri artisti contemporanei come Lucio Fontana, abbia creato relazioni di amicizia e complicità; il figlio, il Dott. Stefano Broggini racconta in una intervista ad Alessandro Ricci di EGIDI, che da bambino passava le estati ad Albissola dove Lucio Fontana era un habitué, anche perché c’era il famoso forno per ceramiche di Pozzo Garitta. A Venezia, per la Biennale del ‘62, con Alberto Giacometti, con il quale c’era grande stima, passeggiava tra le rispettive opere esposte in due padiglioni vicini. Veniamo quindi, dopo aver descritto lo scultore e l’artista, al pubblicitario.

Perché Broggini abbia scelto di firmare le sue opere con uno pseudonimo a me sembra piuttosto evidente; considerava la pubblicità come un’arte minore e non voleva intaccare il prestigio di quanto fatto come artista.

Sarà per questo che la storia del logo della più grande azienda italiana è rimasta avvolta nel mistero fino a non molto tempo fa quando il figlio ha confermato che il cane a sei zampe di Eni, ieri Agip, l’altro ieri Supercortemaggiore, è stato disegnato da suo padre durante un concorso voluto da Enrico Mattei per scegliere il logo della nascente azienda energetica italiana.

Dalla comunicazione di AICAM, Associazione Italiana Collezionisti Affrancature Meccaniche, emerge da una relazione del Rotary Club di Milano, che Dante Ferrari, che fu il segretario del concorso, raccontò nel 1994 come si svolse la competizione. Parteciparono circa 4.000 bozzetti e la giuria fu impegnata per 14 sedute; i premi ammontavano a 10 milioni di lire e il primo premio andò all’opera con il contrassegno 3×3, presentata a nome di un grafico-fotografo di Milano, Giuseppe Guzzi.

Cito da AICAM: “solo una decina di anni più tardi si scoprì che l’autore del disegno era il notissimo scultore Luigi Broggini, che però non ha mai ammesso di esserne l’autore”.

Perché non abbia mai voluto accettare l’attribuzione di uno dei loghi più iconici della storia industriale italiana per me è abbastanza ovvio; non voleva essere ricordato per un lavoro che considerava un’attività estemporanea in un campo dove l’arte grafica era considerata “minore” rispetto alla sua vera attività artistica. In ogni caso, l’intuizione grafica così originale del cane a sei zampe, per qualcuno ispirato a un animale mitologico nibelungico, ha avuto il merito di trovare nel committente una giuria di interlocutori non certo privi di talento. Attribuire a un animale così strano la “brand identity” del nascente gruppo energetico italiano, in una competizione serrata con i grandi colossi dell’industria petrolifera americana, fu una scelta coraggiosa, consistente e in grado di rinnovarsi insieme all’evoluzione dell’azienda. Qualche anno più tardi, anche Bob Noorda si cimentò con la brand identity del Gruppo Eni, rendendo più stilizzato il logo. Secondo il “coccodrillo” di Domus a proposito della scomparsa di Bob Noorda nel 2010, a concepire il logo fu Luigi Broggini e a disegnarlo furono Bob Noorda e, attenzione, attenzione, Giusepe Guzzi. Lo stesso che compariva come persona referente del concorso. Sorge spontanea una domanda: sarà esistito il signor Guzzi o si trattava di un altro pseudonimo? Un vero giallo che bene si accompagna al colore della brand identity di Eni. Per tornare all’attività pubblicitaria di Broggini, anzi di Leon Garù, trovo interessanti i lavori per la Lotteria di Agnano e per la Lotteria di Merano, che riprendono uno dei soggetti preferiti dello scultore, i cavalli. Gli elementi grafici risentono di una certa freschezza di segno che li rende simili a una certa abitudine dell’affiche transalpina di illustrare in modo dinamico e raffinato i soggetti come nelle opere di René Gruau. Leon Garù firma anche uno dei primissimi poster per Alitalia nel 1954, dove secondo la galleria francese di affiche MasterPoster, viene visualizzato uno dei primi quattro Douglas C4, acquistati alla Pan Am nel 1949. Anche qui si scopre una incredibile storia italiana fatta di creatività ed eccellenza: il sito francese spiega che oltre alla fusione con LAI, Linee Aeree Italiane in una sola compagnia chiamata Alitalia, voluta dall’IRI, le prime hostess negli anni ’50 erano vestite dalle Sorelle Fontana, una casa di moda specializzata in produzioni sartoriali e nell’alta moda, nata a Roma nel 1943 e diventata celebre presso le grandi attrici di Hollywood che scoprivano in quegli anni Roma e Cinecittà. Torniamo a Broggini artista, che si cimentò anche con la poesia pubblicando due libri (“Due cipolline verdi”, 1956 e “Caffè Craja” 1962) questa volta con il suo nome e non con uno pseudonimo e chissà quante altre cose si potrebbero scoprire approfondendo la storia con chi è stato testimone di queste incredibili avventure creative. Magari in una prossima puntata si potrebbero intrecciare i percorsi creativi tra attività creative diverse tra loro o raccontare i percorsi degli artisti che si sono incontrati anche in territori culturali, politici o geografici differenti. Chiudo con una considerazione vista l’amicizia e la contemporaneità tra Luigi Broggini e Lucio Fontana, che quasi tutti gli artisti, scultori, pittori, poeti, scrittori, registi hanno toccato con mano la pubblicità, come Fontana nella campagna per Lloyd Triestino ma sempre con una certa prudenza. Chi attraverso uno pseudonimo, chi non facendolo sapere al pubblico, quasi che a toccare la pubblicità ci fosse il rischio di venire contagiati dalla parte meno nobile e più commerciale della creatività con il rischio di vedere intaccare l’ispirazione creativa per l’arte.

In altre parole, come diceva Jaques Séguéla: “non dite a mia madre che faccio il pubblicitario…lei mi crede un pianista in un bordello”.

Credits: Collezione Salce, Ministero dei beni culturali.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Agosto / Settembre | 2023 n° 07