Ho visto arrivare la Milano da bere prima ancora che nei poster di RSCG, a firma di Marco Mignani, dai finestrini del treno che entrava in Stazione Centrale. Avevo il mio portfolio monumentale e cartaceo che mi trascinavo dalla provincia del Nord Est e da poco a Milano si respirava quell’aria da dopolavoro brillante davanti ai primi spritz, in cui tutti ti davano consigli nel bene e nel male sulle agenzie da frequentare. Conoscevo già Milano perché avevo seguito, per alcuni importanti clienti, shooting fotografici o allestimenti fieristici e quindi conoscevo uno dei posti che mi permetteva ogni volta di fare scouting tra libri di grafica e pubblicità: la libreria Salto. Nel seminterrato sulla “circonvalla” interna c’era un autentico tesoro di libri americani, inglesi e tedeschi e tornavo a casa sempre più carico di quando partivo.
Non sapevo però che a pochi metri di distanza ci fosse uno dei migliori ristoranti di Milano e anche uno dei migliori esempi di immagine coordinata totalizzante dove architettura, design e grafica contribuivano a rendere “el Prosper” (il nome del ristorante) uno degli esempi di comunicazione meneghina più coerenti e goliardici in un’epoca in cui i creativi, i grafici e gli architetti vestivano abiti di buona fattura, indossavano la camicia e la cravatta e spesso fumavano la pipa.
Silvio Coppola è stato tutto questo: un architetto capace di mettere il suo talento a disposizione di discipline collegate tra loro da elementi come la creatività, le rigide regole delle proporzioni auree e la ricerca innovativa.
Un po’ di biografia tratta da un articolo a firma di Maria Luisa Ghianda per Doppiozero che mi ha fatto scoprire un lato che non conoscevo di lui: Silvio Coppola nasce a Brindisi nel 1920, ma sceglie Milano per vivere e per lavorare e al suo Politecnico si laurea nel 1957. Membro attivo delle associazioni di design tra le più prestigiose, quali l’ADI (Associazione per il Disegno Industriale), l’Art Directors Club (di cui progetta il famoso logo), l’AGI (Alliance Graphique Internationale), dove ricopre per due anni l’incarico di Vicepresidente, e l’AIGA di New York, è stato il curatore dell’immagine di prestigiose industrie.
Il lavoro di Coppola l’ho incontrato varie volte nel design e nell’arredamento ma non conoscevo questa divertente storia che sta dietro a “el Prosper” e qui devo dire che nella descrizione di Ghianda compare quella Milano che ho intravvisto poco prima di quella “da bere” e che mi piaceva molto di più. “Quando il Prospero era in vena (il che accadeva di sovente, stimolata la sua vena dalle goliardiche richieste dell’appassionata clientela) inscenava un vero e proprio spettacolo di cabaret vestendo i panni di un mordace e verboso sacerdote che predicava in dialetto bergamasco, pronto a dispensare sferzanti omelie all’uditorio, contrappuntate da pungenti analisi socio-politiche sui fatti di cronaca del momento. E quei panni non li vestiva solo metaforicamente, indossava davvero ‘la toniga e ul capèl da prēt’, finendo per somigliare, così abbigliato, al don Camillo di Guareschi interpretato al cinema da Fernandel, proprio tra gli Anni Cinquanta e Sessanta. È indubbio che la cucina de el Prosper fosse una delle migliori della Milano d’allora, ma quelle prediche la rendevano unica e ancora più appetitosa. L’adepto più illustre (però raramente presente in sala perché troppo serio per pender parte alla baldoria) di quella brancaleonica combriccola era Silvio Coppola (1920-1985), il fedelissimo di “don Diego”, progettista dell’immagine coordinata e dell’architettura d’interni del suo mitico ristorante, evolutosi da mescita di vini a tavola calda nel 1882, per poi diventare el Prosper negli Anni Sessanta del Novecento”. A tavola si concludevano contratti o si iniziavano progetti e spesso il luogo era un elemento importante per entrambi i risultati.
“Nella corporate identity totalizzante di el Prosper, Coppola sperimenterà per la prima volta la sua poetica della fusione tra architettura, graphic e product design, che andrà poi a confluire nel decalogo dell’ED (Exhibition Design). Questo gruppo di ricerca, di progettazione e di divulgazione, da lui fondato nel 1968 con l’obiettivo della convergenza tra le metodologie progettuali del graphic design con quelle dell’industrial design, vedrà l’adesione dei maggiori grafici di allora, da Giulio Confalonieri a Franco Grignani, da Bruno Munari a Pino Tovaglia (Mario Bellini vi si aggiungerà nel 1970)”.
La cosa che sorprende è la qualità del pensiero che sta dietro a un simile progetto: a partire dal logo con le iniziali di Diego Prospero tutto ha una sua logica coerenza. I materiali “moderni” come il cemento e l’acciaio inseriti in un palazzo storico, il frigorifero nella bussola d’ingresso con lo stesso elemento grafico del biglietto da visita, il logo riprodotto in vari materiali sia cartacei che sulle stoviglie. Tutta questa coerenza estetica insieme agli arredi disegnati da Coppola e prodotti da Bernini lasciano spazio anche alla goliardia estetica e come per il personaggio del ristoratore compare in parallelo all’immagine coordinata unsecondo elemento grafico che viene rappresentato da una mela che si sbizzarrisce tra manifesti e inviti vari a rallegrare la comunicazione del posto a volte mordendosi o fumando oppure ammiccando e sbadigliando.
Un’intuizione estetica che libera l’artista dallo schema rigido dell’impaginazione e delle regole architetturali. Questi poster oggi introvabili se nona prezzi folli, serigrafati su superfici metalliche, raccontano la possibilità di scherzare e di rimanere leggeri anche in giacca e cravatta.
Se il lavoro per “el Prosper” è per un solo committente, i progetti editoriali creati per Feltrinelli sono molto più sfidanti per un creativo anche perché un pubblico ampio di lettori può decretare il successo o meno di un autore. Ci sono i bellissimi lavori dalle copertine ispirate da singoli contenuti dove il lettering si muove con una propria energia non seguendo nessuno schema predisposto. Qualche similitudine con alcuni artisti russi degli anni ‘20 o dei futuristi nostrani ma anche una ricerca di “rompere gli schemi” tipici della ricerca grafica degli anni ’60.
Quello che però ho trovato geniale è il lavoro fatto per la collana “Franchi Narratori” dove l’idea alla base di tutto sta letteralmente “alla base”. E così il nome della collana (bellissimo) diventa più grande e presente del titolo e dell’autore e viene messo a piè pagina quasi a garantire l’appartenenza a un tipo di narrativa per tutte le opere della collana. Inoltre, l’uso del bianco e nero e di un solo colore, il rosso come ha fatto Albe Steiner prima di Coppola, creano una forza simbolica fortissima. Oggi la logica marchettara porterebbe a dire che il titolo della collana in basso verrebbe coperto nell’esposizione su alcuni scaffali e di sicuro verrebbe bocciato ma per fortuna ci sono state e sempre ci saranno delle eccezioni; ne sa qualcosa Penguin Books con le sue copertine puramente grafiche scollegate da tutto e da tutte le logiche.
Mi piace molto il lavoro di Coppola perché ci ho visto una costanza non solo estetica fatta da uno stile riconoscibile ma concettuale. In una sedia fatta da un solo tubo piegato chiamata Gru, perché si regge
su una gamba sola o in una lampada che sembra soltanto una tenda da finestra come nelle copertine che ribaltano il principio della rigidità o mettono sottosopra gli schemi correnti ho visto anche la “leggerezza” della ricerca creativa che è una dote più unica che rara e che nel clima meneghino degli anni ’60 coniugava il cabaret, la musica, il teatro con l’energia industriale che ha segnato l’epoca del miracolo italiano. Anche nella grafica.
Courtesy: Maria Luisa Ghianda, Doppiozero, Archivio Coppola / Fondazione Ragghianti, Heinz Waibl, Alle radici della comunicazione visiva.