Eccoci con un’altra puntata del viaggio alla scoperta dei pubblicitari, comunicatori, grafici del secolo scorso dei quali restano poche ma tangibili tracce nei musei e nelle collezioni private dei loro manifesti. Sembra incredibile che ci siano poche righe e nessuna (che a me risulti) monografia di Mario Puppo: nato a Levanto nel 1905, già negli Anni ‘30 iniziò a realizzare nel suo studio di Chiavari materiale pubblicitario per pubblicizzare località di mare e montagna. Una professione che si può riassumere in due grandi periodi: prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale.

I canoni estetici e l’enfasi voluta dal regime e anche alcuni luoghi che nella seconda metà del secolo scorso vennero scorporati dai confini italiani sono contraddistinti da due toni di voce differenti. Come dicevo, il periodo che precede il conflitto è un periodo in cui l’artista ligure si adegua ai toni trionfalistici di rappresentazione di luoghi che parlano di “impero” e civiltà italiana” che vengono descritti da altri grandi rappresentanti della cartellonistica italiana come Nizzoli, Carboni, Walter Molino e che cambieranno drasticamente stile negli Anni ’50. È un periodo molto ricco di attività perché l’ENIT, Ente Nazionale per le Industrie Turistiche fondato da Vittorio Emanuele III nel 1919, ha come scopo quello di promuovere in Italia e all’estero la nascente industria turistica, appannaggio fino ad allora, soltanto di una classe colta e abbiente che dal secolo precedente aveva inserito nella formazione dei rampolli della grande borghesia internazionale il Grand Tour come passaggio obbligato per la formazione degli eredi delle grandi famiglie.

L’ENIT diventa nel 1931 un ente statale e, con la “direzione creativa” di Mussolini, uno strumento di propaganda interna ed esterna. I canoni estetici si configurano facilmente assimilando la cultura imperiale dove per esempio la lettera “U” viene sostituita o visualizzata in alcuni manifesti dalla lettera “V” come per l’alfabeto romano: URBINO diventa VRBINO. Il poster di Cortina d’Ampezzo di Puppo del 1938 è un chiaro esempio di sottomissione a queste regole ma anche un ingegnoso espediente per non aderirvi completamente: vediamo la rappresentazione maschia voluta dalla direzione creativa dell’epoca, dal basso verso l’alto e un accenno a un saluto fascista che in realtà è dovuto più all’inclinazione dell’immagine e che se raddrizzata rappresenta soltanto uno sciatore che indica una meta all’orizzonte. Come scrisse Germano Celant in un saggio contenuto ne “La Metamorfosi Italiana 1943-1968”:

“il crollo del regime, la sconfitta militare, la Resistenza spazzarono via i modelli culturali nazionalisti e retorici, in favore di un’identità nazionale aperta, liberale. Gli intellettuali intrapresero una ricerca di modernità che era già avviata nei vecchi paesi democratici…”.

Ecco, partendo da questa citazione mi sono accorto che l’attività di Puppo a partire dagli anni ’50 cambia radicalmente la rappresentazione dei luoghi di villeggiatura italiani. In quegli anni sono già note le mete turistiche e le città d’arte grazie al cinema (Vacanze romane di William Wyler è del 1953 e Tempo d’estate girato a Venezia da David Lean è del 1954) per non parlare del periodo che segue della Dolce Vita all’italiana, per cui all’artista non è più richiesto di “illustrare” Portofino, Capri, Roma o Venezia, ma gli viene chiesto di presentare il “beneficio” di una vacanza. Non so se questo sia frutto di un briefing come lo chiameremo oggi o di una semplice intuizione artistica dei protagonisti della comunicazione, sta di fatto che compaiono esempi come nel manifesto per Finale Ligure, dove la sintesi grafica e l’ironia sembrano rivolgersi alla nuova classe borghese promettendo relax e tranquillità rappresentati da un pesce che si crogiola al sole su un gommone fumando un sigaro in tutta la tranquillità.

È il periodo dell’ottimismo e del miracolo all’italiana, delle domeniche al mare o in montagna dentro a macchinine di latta piene di famiglie figlie del baby boom e del boomer che sta scrivendo. Lo stesso messaggio sintetico e ironico lo si può vedere nel manifesto promozionale della Sicilia dove un fico d’india con la coppola ammicca ala visita di una terra soleggiata ed esotica con l’Etna e un tempio greco sullo sfondo. Puppo a volte si è spostato anche su registri pittorici in voga nello stesso periodo; sono bellissime le rappresentazioni cubiste di Procida dove i colori danzano e le case si trasformano in altrettante campiture di colore. Per la Sardegna invece introduce le figure femminili dando il via a uno stile con le figure cerchiate di nero che mi ricorda i segni delle pitture di Flavio Costantini e Valerio Adami. Mario Puppo ha lavorato anche per grandi aziende come Barilla producendo un calendario negli anni ’50 e per compagnie liriche e teatrali per le quali illustra copertine e manifesti ma, solitamente, Puppo viene associato al lavoro svolto per ENIT.

Credo che si sia parlato poco di lui perché lo si è forse considerato più come un “impiegato” al servizio della promozione turistica che come artista dalle intuizioni e rappresentazioni così attuali che qualche anno fa un suo celebre manifesto per la città di Grado del 1948 venne ripreso dalla città di Forte dei Marmi che dovette poi scusarsi e ritirare tutto il materiale stampato.

Anche gli ideatori della comunicazione dei Mondiali di Sci di Cortina del 2021, in un’intervista dichiararono che per lo stile usato per i dépliant della manifestazione si ispirarono a Puppo e Lenhart. Ecco quindi che una pagina su Wikipedia o una monografia per raccontare la storia di questo grande artista non sarebbe per niente fuori luogo; per fortuna nel bellissimo libro di Lorenzo Ottaviani Travel Italia edito da L’Ippocampo la presenza dei lavori di Mario Puppo è rappresentata da un numero di opere così vasto da restituire dignità e prestigio a uno dei grandi cartellonisti del secolo scorso che ha ben raccontato il passaggio di un’epoca del nostro Paese attraverso la rappresentazione dei suoi luoghi più iconici e rappresentativi con maestria e per fortuna con un pizzico d’ironia.

Courtesy of Travel Italia/Lorenzo Ottaviani/L’Ippocampo, Museo Nazionale Collezione Salce, Ministero della cultura. Foto Mario Puppo: Archivio Storico Barilla.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Luglio | 2023 n° 06

Per molti anni ho frequentato una vallata alle pendici del Monte Rosa dove ho camminato, sciato e qualche volta spaccato la legna per alimentare una stufa in una casa Walser, esplorando le vallate più remote costellate di chiesette e capitelli decorati con colori sgargianti che riproducono le scene religiose tipiche dei santi votivi a cui sono dedicate. Qualche volta i tratti sono semplici, ma in alcuni casi mi sono imbattuto in veri capolavori che sono il frutto di una bella e antica tradizione di pittori valligiani che vede il suo centro artistico più famoso nel complesso del Sacro Monte di Varallo.

Molte delle cose che ho scoperto nel tempo sulla vallata e sul suo grande bastione che si staglia sul fondo, il Monte Rosa, l’ho scoperto grazie all’amore per uno scrittore che ha parlato delle cose accadute tra queste valli dal suo punto di osservazione tra le risaie di Novara dove il Monte Rosa si specchia nelle giornate limpide, Sebastiano Vassalli.

Ci sono le storie ambientate nel ‘600 del libro “La Chimera” ma anche quelle in epoche più recenti del libro “Le due chiese” dove si parla di questi luoghi e dei pittori che con pennelli e colori si arrampicavano per decorare le piccole strutture votive costruite dai montanari. Ho trovato molte similitudini nella storia della famiglia Musati con i protagonisti del libro ambientato sotto “il macigno bianco” come lo chiama Vassalli, dove la storia recente ha vissuto il conflitto tra partigiani e nazifascisti e dove si riescono a ricavare sulla storia di Musati ho scoperto da una pagina web scritta dal figlio scrittore Fabio Musati, scomparso qualche anno fa, che la storia del padre inizia negli Anni ‘30 come pittore autodidatta.

Arnaldo Musati (Varallo Sesia, 1916-Roccapietra, 1988), pittore autodidatta di origini valsesiane, si dedicò al manifesto e alle stampe pubblicitarie negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Fu Cino Moscatelli, suo compagno di lotta partigiana in Valsesia, a commissionargli il manifesto della Liberazione; successivamente si trasferì ad Aosta dove aprì uno studio di pubblicità e realizzò molti dei manifesti che pubblicizzavano le stazioni invernali di tutta la valle: Cervinia, La Thuile, Cogne, Pila, la bellissima serie dell’Aosta-Gran San Bernardo.

Era quello – gli anni a cavallo fra i ’40 e i ’50 – un periodo di ricostruzione e di rilancio di tutte le attività: questa generosa e ingenua energia dà colore e luce alla tavolozza di Musati e la gioia della libertà riconquistata traspare nei sorrisi e negli slanci delle sue famose donne con le braccia alzate, il suo marchio di fabbrica. Se guardiamo alle immagini pubblicitarie di queste località troviamo elementi che accostano l’opera di Musati a quella di altri e più celebrati “cartellonisti” come Gino Boccasile, Mario Puppo o Franz Lenhart, tutti contemporanei di Musati e tutti con una visionesolenne della montagna e degli sport invernali.

Le figure sono sempre inquadrate dal basso verso l’alto per creare slancio estetico ma anche perché i canoni dell’epoca sono quelli classici del ventennio; Musati aderisce ovviamente a questa scuola estetica ma mantiene, protetto dalle sue vallate, una specie di originale ingenuità ed esprime lasolarità e la gioia di vivere la montagna con figure e colori che ammiccano alle immagini semplici della sua terra. È innanzitutto un pittore con la montagna negli occhi, dove la luce brilla come nelle opere di Segantini in modo diretto e questa sua visione lo porta a mantenere un ottimismoestetico in tutta la sua opera.

Il poster di Cervinia, così famoso da essere continuamente riprodotto, è molto diverso da quello di Alpe Mera dove la forza del soggetto si mescola quasi a un uso fotografico e grafico dell’immagine.

Sempre riprendendo da Fabio Musati: a metà degli anni ’50, la fotografia fece il suo prepotente ingresso sulla scena della comunicazione murale e della pubblicità in genere; Musati si fece silenziosamente da parte, dedicandosi all’illustrazione di libri per gli editori Fabbri, Boschi e infine Raiteri. Della collaborazione con la Fratelli Fabbri rimangono poche documentazioni: soltanto le illustrazioni di due libri per ragazzi. Della collaborazione con l’Editrice Boschi possiamo ancora ammirare quasi tutte le illustrazioni eseguite per la Collana Romanzi Celebri e alcune altre per le collane dei ragazzi. Questa collaborazione andò avanti per qualche anno, dopodiché ci fu l’incontro con l’Editore Raiteri, per il quale il pittore si dedicò alleillustrazioni dei libri scolastici per le scuole elementari.

È un peccato che non ci sia una raccolta completa delle sue opere che saranno sparse tra collezionisti vari e nessuno abbia ancora pensato di scoprire la storia di un pittore che con i pennelli dipingeva la sua montagna;
i poster di viaggio sono stati un modo per far scoprire il nostro paese ai turisti internazionali. Sarebbe bello se ci potesse essere una galleria a cielo aperto in Val d’Aosta o nella Val Sesia dei suoi lavori magari sulle pareti delle vecchie costruzioni tra gerani alle finestre e campanacci nei prati.

Courtesy by Fabio Musati, Travel Italia, l’età d’oro del manifesto turistico by Lorenzo Ottaviani, Collezione Salce, Beni Culturali.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Giugno | 2023 n° 05

Per avvicinarmi ad Albe Steiner, del quale da sempre nutro un grande rispetto e un certo riconoscimento per quanto fatto dal punto di vista umano e civile, per aver reso un po’ più nobile il lavoro che faccio, ho fatto un giro largo e timido di avvicinamento. Ho pensato al “grafico partigiano”, all’uomo capace di mettere l’impegno civile “dentro” alla propria professione. Poi mi sono detto, rileggendo il suo libro “Il mestiere di grafico”, edito da Einaudi, che questo signore avrebbe ancora tanto da insegnare oggi e così ho preso la decisione di parlare con una persona che lo ha conosciuto da vicino: Anna Steiner. Figlia di Albe e Lica, docente al Politecnico e soprattutto custode e memoria cortese del lavoro e della storia dietro alla quantità sconfinata di lavori, bozzetti e progetti sviluppati dal papà.

Lo studio (oggi Origoni Steiner) è ricco di storie e di “Storia” vera e propria perché la formazione culturale, civile e politica di Steiner avviene in una famiglia dove il pensiero è libero e non condizionato da convenzioni religiose o da preconcetti razziali. Uno degli zii di Steiner, Giacomo Matteotti, venne ammazzato dalle camicie nere di Mussolini e il padre di Albe fu tra le persone che trasportarono la bara al funerale. Questo fatto, ma non solo, farà sì che tutti i componenti della famiglia saranno per più di vent’anni controllati dal regime. Albe vivrà poi la fine drammatica del suocero, il padre di Lica, catturato e ucciso per la sua identità ebraica, durante un rastrellamento in Ossola, il 15 settembre 1943, e del fratello maggiore, morto nel campo di Ebensee, sottocampo di Mauthausen, dove fu deportato, come avvocato antifascista, preso a Milano per una delazione. Una storia così particolare non poteva che dare risultati a dir poco originali nella formazione di Steiner e così all’età di undici anni il “ragazzo” produce il suo primo “manifesto” disegnando una caricatura di Mussolini accompagnandola con la frase: “Mussolini, gran capo degli assassini”. Questo disegno, che Albe aveva incollato per strada, venne da lui definito più tardi come: “Il mio primo cartello stradale”. L’impegno civile e politico di tutto il lavoro di Steiner fu una costante che durò tutta la vita, però vorrei che chi ci legge in questa rubrica non “confinasse” l’opera di Steiner soltanto nel contesto storico della Resistenza e della Sinistra italiana ma considerasse la grande modernità del “pensiero” di Steiner sulla comunicazione del suo tempo e per alcuni aspetti molto attuale ancora oggi. 

Sentite per esempio cosa diceva a proposito della scarsa qualità della comunicazione urbana in Italia nel dopoguerra:

“L’Italia è un Paese visitato da milioni di turisti stranieri, ma vicino ai monumenti che sono l’espressione artistica della sua vita, in questi paesaggi straordinari, si è spesso disturbati da colori e da immagini che con il paesaggio, l’architettura e l’intorno dell’uomo non hanno niente a che fare”. 

Un’attenzione all’ambiente che ci circonda e che oggi sembra più attuale che mai, dove l’inquinamento visivo può essere dannoso quasi quanto l’inquinamento da CO2 perché produce assuefazione allo status quo e al brutto che ci circonda. Steiner merita di essere studiato perché è stato più della somma delle sue parti creative: quando ha progettato il logo per la COOP, rinnovato e inspessito più tardi da Bob Noorda, e ha descritto l’unione tra le persone della cooperativa facendo “toccare” le quattro lettere che lo compongono come a sottolineare la missione  di cooperazione tra persone.

Il logo di Urbino Città, invece, è frutto di un lavoro collettivo fatto coinvolgendo i ragazzi della scuola di Urbino ISIA; si potrebbe scrivere un libro solo su questo approccio dove lo stemma araldico del vecchio simbolo viene rivisto in modo contemporaneo. Si tratta di un piccolo capolavoro di sintesi estetica e concettuale con la “U” che diventa scudo e contiene in modo moderno gli elementi della tradizione. Steiner è stato in grado di “vedere” le cose da un’angolatura diversa anche fotografica; prendiamo per esempio la famosa foto del bambino ebreo con le mani alzate nel ghetto di Varsavia. La foto originale è molto più ampia ma l’idea di riquadrare soltanto il bambino venne per prima a Steiner per la copertina del libro “Pensaci, uomo” di Piero Caleffi e dello stesso Albe Steiner, edito da Feltrinelli; in questo modo la foto sottolinea ancora di più la drammatica contrapposizione tra un bambino inerme con le mani alzate e i militari tedeschi in assetto di guerra condannando l’assurdità di un conflitto tra prepotenti e deboli. Lo spazio dedicato da questa rubrica è veramente troppo poco per presentare la grandezza di questo uomo che dichiarava parlando della sua attività di designer “non si può fare una buona vetrina con brutti e mal disegnati prodotti”. 

Nella sua veste di designer, Steiner ha disegnato penne, maniglie, ciclomotori e vari oggetti fino a essere chiamato a coordinare il reparto creativo della Rinascente. In questo spazio che fu il punto d’incontro tra creativi emergenti di scuola internazionale come Max Huber (autore del logo Rinascente) e architetti come Giò Ponti nacque l’idea di dar vita al premio Compasso d’Oro, riconoscibile per il celebre logo disegnato proprio dallo stesso Steiner. Il compasso che è rappresentato non serve, per chi non lo sapesse, a fare i cerchi ma veniva usato dallo stesso Steiner per calcolare le proporzioni auree. La sua più grande passione professionale credo sia stata legata ai prodotti editoriali a partire dal lavoro che svolgeva curando e pubblicando giornali clandestini durante gli anni della resistenza per arrivare ai progetti de Il Politecnico creato insieme a Elio Vittorini, del quale fu grande amico, oppure del progetto grafico di Rinascita, per il quale fu chiamato direttamente da Togliatti.

De Il Politecnico si è detto molto ma una cosa mi piace sottolineare del progetto editoriale che va al di là dello schema grafico e cioè l’idea di fondo che si cercava in quegli anni e che dovrebbe essere più che mai attuale, di “creare una cultura che prevenga e non che consoli”. Mi è sempre piaciuto il suo modo di “disegnare” i tantissimi bozzetti in piccolo riproducendo vari schemi di impaginazione e usando spesso solo due colori: il nero e il rosso.


La copertina per Interiors del ’48 parla lo stesso linguaggio sintetico e grafico e anticipa un’attenzione per la nascente cultura grafica italiana da parte degli editori americani. È stato in Messico dal ‘46 al ‘48 dove ha conosciuto, tra gli altri, Hannes Meyer, Direttore della Bauhaus dopo Gropius. Cercherà poi di creare, al suo rientro in Italia, una scuola (prima il Convitto Rinascita e poi L’Umanitaria) che si ispirasse al modello umanista e internazionale del Bauhaus. Nel ’68 è tra i membri della Giunta della Quattordicesima Triennale di Milano, dal tema “Il grande numero”, che vedrà le contestazioni che porteranno all’occupazione della Triennale stessa, che Steiner, con Giancarlo De Carlo e Billa Zanuso, accetterà nonostante il dispiacere di non vedere realizzato e visibile il lavoro delle esposizioni programmate su quell’importante tema. Per riassumere, un professionista e una persona non comune; un insegnante che oggi sarebbe bello osservare tra i ragazzi soprattutto per la sua capacità di saper vedere al di là del progetto grafico. Una visione dall’ampio respiro civile in cui certi valori non si devono dimenticare ma si devono portare nel messaggio di tutti i giorni. Probabilmente un insegnante che oggi ci insegnerebbe a “resistere” e anche a dire di no e che ci aiuterebbe a mantenere un pensiero critico verso le forme di comunicazione che stanno scivolando verso la banalità e la bruttezza spesso accompagnate da giustificazioni quali la “ricerca dell’impatto” che sono il frutto di una cultura della scorciatoia che ci accompagna dalla fine degli anni ’90. 

Courtesy of Anna Steiner e Corraini Editore.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Maggio | 2023 n° 04

Alzi la mano chi non ha mai visto uno dei suoi più famosi poster per Campari. Lo “spiritello” o diavoletto, a seconda di come viene presentato dalle varie gallerie o case d’asta che ormai si contendono a prezzi esorbitanti i pochi poster rimasti in circolazione, a volte salvati su carta telata, fa parte ormai dell’iconografia classica della cultura dell’affiche. 

“Affiche” che in Francia conosce il suo periodo d’oro grazie al contributo di pittori come Toulouse- Lautrec che prestano la loro arte alla nascente tecnica della stampa litografica. Siamo tra la fine del 1800 e l’inizio del ventesimo secolo e a Parigi si respira la modernità grazie anche all’esposizione universale del 1889 che lascerà come traccia tangibile del progresso e della voglia di spingersi più avanti e in alto, la Tour Eiffel. È a Parigi che il giovane Leonetto Cappiello, (fonte Treccani), si trasferisce nel 1898, dove, pare in seguito a un incontro con Giacomo Puccini, che lo incoraggia e lo introduce nell’ambiente, incomincia una fortunata collaborazione, come caricaturista, al periodico Le Rire. Ottiene un rapido successo, che gli frutta altre importanti collaborazioni (a Le Figaro, Le Gaulois, Le Journal, Le Cri de Paris, La Revuye des théâtres, ecc.). Nel 1899 pubblica un felicissimo album di diciotto caricature a colori, “Nos actrices”, per le edizioni della Revue blanche, con prefazione di Marcel Prévost. L’anno dopo modella spiritose statuette in ceramica con i medesimi soggetti: alcune di queste (Yvette Guilbert) saranno poi acquistate dal Museo Carnavalet. Altre sue raccolte di disegni escono nel 1902 (Gens du monde, numero speciale di L’Assiette au beurre dell’8 novembre) e nel 1905 (Soixantedix dessins, Paris, Maison Flony). Ma è con la produzione dei manifesti che Cappiello raggiunge il grande pubblico e grazie ai cartelloni pubblicitari gli viene assicurata la fama internazionale.


Il primo manifesto è quello parigino, creato per il giornale Le Frou- frou, del 1899, proprio nel gusto di Toulouse- Lautrec. Continua poi con lavori creati per committenti francesi e italiani. Molti dei poster vengono stampati alle Officine Grafiche Ricordi di Milano. C’è qualcosa di innovativo nei suoi lavori che cattura l’attenzione del pubblico anche per l’introduzione di elementi che si discostano da quanto visto finora e oltre all’uso sapiente dei colori brillanti gli elementi che compaiono sono per la prima volta inseriti su fondi dai colori pieni e a volte addirittura, neri. Il poster per Chocolat Klaus (1903), oltre al fondo nero presenta una nuova figura con una soluzione espressiva e un tema inedito: un’amazzone con un lungo vestito verde che cavalca un piccolo cavallo rosso fuoco dove le proporzioni sono completamente inventate. Cappiello “libera” le sue opere dalla necessità di rappresentare il prodotto introducendo figure di fantasia che a volte lasciano esterrefatti gli osservatori come la zebra rossa per Vermouth Cinzano (1910) o il folletto sputafuoco per Thermogène (1909). L’efficacia comunicativa aumenta lasciando le ambizioni estetico-decorative dei primi manifesti sul fondo privilegiando uno stile più diretto, basato su fondi uniti e sintesi cromatica. Per il Bitter Campari, Cappiello realizza quello che può essere considerato il “manifesto” del suo pensiero artistico: il diavoletto o spiritello inventato dialoga in modo nuovo con il prodotto creando un tutt’uno che staccandosi dal fondo nero acquista una profondità mai vista prima. Da questo momento in poi Cappiello manifesta uno stile personale, maturo e autonomo, che si fa via via più riconoscibile e riconosciuto a livello internazionale. I manifesti caratterizzati da personaggi che non hanno più attinenza diretta con il prodotto da pubblicizzare hanno lo scopo di creare un’immagine-marchio altamente riconoscibile, un po’ come se Cappiello cercasse di creare prima ancora del messaggio pubblicitario per il prodotto, un tono di voce per il “brand”. 

Matteo Albertin, nel suo blog, presenta anche un fatto che ignoravo nonostante conosca piuttosto bene il posto di cui si parla: Cappiello, nel 1906 conosce e viene invitato a Camogli dal Cav. Gaggini, un finanziere residente a Parigi che intuisce le potenzialità del Monte di Portofino nella nascente industria del turismo e inventore del Hotel Portofino Kulm che si affaccia sul versante di Ruta di Camogli. La comunicazione turistica dell’Hotel Kulm risente ancora della “Belle Époque” ed è piuttosto descrittiva del luogo ma è interessante per l’eleganza e per lo scorcio prospettico.

Nella sua carriera di artista è stato premiato e celebrato con tantissimi premi e riconoscimenti, tra cui la Légion d’Honneur in Francia, mentre in Italia ha ricevuto il tributo con una sala interamente dedicata ai suoi lavori durante la Biennale di Venezia del ’22. Cappiello è giustamente considerato uno degli inventori della cartellonistica moderna; applicò la sintesi grafica alle sue opere assimilando le varie correnti artistiche senza mai diventarne succube. Le immagini sono al tempo stesso ironiche e intelligenti ma, disimpegnate e senza essere appesantite da significati subliminali, si mantengono dirette e semplici da comprendere al punto che ancora oggi a distanza di più di cent’anni, le sue creazioni vengono “citate” da street artist come nell’esempio del diavoletto verde fotografato e proposto nella foto in alto, accanto all’originale. 

Courtesy of: catalogo generale dei beni culturali, museo nazionale collezione salce. Collezione privata – foto Luciano Nardi

Leggi l’articolo su Touchpoint di Aprile | 2023 n° 03

Sì, proprio così, perché si potrebbe cominciare con il dire che Federico Seneca non è soltanto un uomo che ha attraversato il suo tempo lasciando segni che rimarranno per sempre nella storia della comunicazione italiana come il celeberrimo Bacio della Perugina, ma l’ha addirittura attraversato in volo. Quella coppia stilizzata stretta in un abbraccio appassionato, legata a uno dei cioccolatini più noti in assoluto: il Bacio Perugina è opera di un artista che nella Prima Guerra Mondiale è stato Regio Pilota dell’aereonautica. Il figlio, Bernardino Seneca racconta una storia degna di una sceneggiatura in stile Corto Maltese dove uomini e amori si intrecciano tra duelli cavallereschi in cielo e fughe amorose in terra.


Troppo poco lo spazio di questa rubrica per raccontare la storia avvincente che porta un ragazzo del 1891 a misurarsi sia con l’arte del manifesto che con quella del volo. Basti dire che Federico, nato a Fano e studente al Regio Istituto di Belle Arti di Urbino, dove nel 1911 si diploma come professore di disegno e allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, si ritrova sul fronte, prima come alpino e poi come aviatore. Gabriele D’Annunzio, secondo il racconto del figlio, gli chiedeva tutte le sere di raccontare a cena qualche cosa di creativo. Un banco di prova che permette a Seneca di conoscere e stabilire amicizie con gli altri piloti. Tra questi, oltre a Francesco Baracca, c’è Luigi Fontana della Vetreria Fontana Arte che resterà uno dei suoi migliori amici e che gli farà incontrare Giovanni Buitoni. Buitoni lo assumerà nel 1921 alla Perugina, con l’incarico di fondare e dirigere l’ufficio pubblicità.In Perugina, Seneca ispirandosi alla coppia protagonista del dipinto “Il bacio” di Francesco Hayez (1859) crea la famosa coppia su fondo blu che ancora oggi, anche se aggiornata con l’aggiunta delle stelle da Giovanni Angelini negli anni di Carosello, conosciamo. Sembra anche che Seneca abbia inventato i famosi bigliettini dei Baci, ispirandosi ai messaggini scritti sulla carta velina che Luisa Spagnoli, proprietaria della Perugina, inviava allora al suo amante Giovanni Buitoni, Amministratore Delegato dell’azienda, nascosti in mezzo ai cioccolatini.
Uno dei primi bigliettini recitava: è meglio un bacio oggi che una gallina domani.


A partire dal 1924 – e fino al 1927 – Seneca realizzò poi quattro manifesti per la Coppa della Perugina, corsa automobilistica istituita quello stesso anno proprio da Giovanni Buitoni. La serie, che testimonia un deciso avvicinamento alle soluzioni formali del futurismo e alla ricerca di Dottori, portò l’artista a confrontarsi con il problema della rappresentazione del movimento e della velocità. Treccani scrive, riferendosi all’opera di Seneca, che “i manifesti incentrati perlopiù su una figura simbolica quanto sinteticae dalle forme compatte e fortemente volumetriche, risentono sia della lezione grafica postcubista sia dell’influenzadi Leonetto Cappiello e permettono altresì di intuire quale fosse il peculiare processo creativo che portava l’artista alla realizzazione del prodotto finito. Durante la fase di ideazione delle sue opere, Seneca era infatti solito realizzare, su un’anima in fil di ferro, un modellino preparatorio in gesso che, esposto a una forte fonte di luce, gli permetteva di studiare e calibrare le volumetrie e i drammatici rapporti chiaroscurali. Da ciò ben si evince quanto l’artista prediligesse la ricerca plastica – a quelle date peraltro già oggetto di indagine e riscoperta a opera di alcune correnti artistiche italiane, prime fra tutte Novecento e Valori plastici – a dispetto della bidimensionalità tipica dell’affiche”.


Nel 1933 Seneca lascia Perugia per Milano, dove si lancia come libero professionista e apre uno studio pubblicitario che diventa presto famoso, con clienti come Talmone, Cinzano, Rayon e altri.
Tra le varie attività intraprende anche una nuova avventura creando una azienda per la produzione della plastica che non avrà molto successo. Il figlio dice del padre che era sicuramente più bravo a fare la pubblicità per gli altri che per se stesso. Lo stile e le idee visive di Seneca rimangono uniche e distinguibili facilmente tra artisti a volte molto omologati tra lor, ma qui non a caso stiamo parlando di qualcuno che ha saputo “volare” per davvero sopra i luoghi comuni con grazia e poesia.

Courtesy of: catalogo generale dei beni culturali, museo nazionale collezione salce. Copertina libro: “il segno e la forma” 

Leggi l’articolo su Touchpoint di Marzo | 2023 n° 02

Quasi sempre quando si guarda alla storia visuale del secolo scorso si ha come la sensazione di scoprire tra le vecchie foto in bianco e nero personaggi che sembrano per definizione “antichi”. A me è capitato spesso di sentirmi diverso e moderno solo perché sono nato qualche decennio più tardi. Adesso parlando e analizzando il lavoro di molti di questi artisti nati tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, attivi tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale fino alla fioritura creativa del Made in Italy nel secondo Dopoguerra, mi sento un nano sia dal punto di vista creativo sia intellettuale. La mia generazione ha visto il fiorire delle tecnologie di riproduzione stampa e video e oggi si confronta con il metaverso e le intelligenze artificiali, ma non credo che quelli attuali siano salti epocali sconvolgenti come lo sono stati i periodi che alcuni degli artisti di cui mi sono occupato negli ultimi articoli hanno attraversato, passando dai primi anni del Novecento attraverso due guerre per raggiungere il periodo dell’industrializzazione creativa degli Anni ’50.

La rivoluzione digitale è sicuramente paragonabile ai grandi cambiamenti del secolo scorso ma non essendo stata cruenta è stata assimilata dai protagonisti contemporanei in modo naturale così come ci abitueremo probabilmente al passaggio dal motore termico al motore elettrico. Queste prime riflessioni mi sono venute in mente quando ho cominciato a scandagliare il lavoro e il percorso creativo di Marcello Nizzoli. Nato a Borreto in provincia di Reggio Emilia nel lontanissimo 1887, ha attraversato i tre grandi periodi della sua vita creativa cimentandosi con quasi tutte le discipline artistiche: è stato decoratore, pittore, architetto, disegnatore grafico e per finire designer industriale per l’Olivetti.

Non mi piace riportare soltanto le note biografiche scandite dalle date ma nella sua formazione all’Istituto d’arte Paolo Toschi di Parma, tra il 1910 e il 1913 ha la fortuna di incontrare degli insegnanti che lo indirizzano all’architettura e alla decorazione.

Parma in quegli anni è lontana dall’Art Nouveau “milanese” e paradossalmente è più vicina alla Vienna di Gustav Klimt e di Otto Wagner. Infatti, i primi lavori di Nizzoli subiscono il fascino della scuola mitteleuropea; non a caso, dal punto di vista politico, siamo ancora alleati con l’Impero Austro- Ungarico e con quello Tedesco- Prussiano nella Triplice Alleanza. Le decorazioni dell’epoca, ancora visibili nella sala Consiliare di Borreto, sono un assaggio di quello che verrà rivisto in chiave trionfalistica nei manifesti degli Anni ’20. Come scrive Arturo Carlo Quintavalle, “l’opera grafica di Nizzoli fu poco influenzata dalla scuola francese” dei Cassandre, a cui si ispirarono Sepo o Dudovich e molto di più dalla Secessione viennese. Da architetto e decoratore alla fine della Prima Guerra Mondiale con la scomparsa del riferimento culturale ed estetico viennese, Nizzoli si deve reinventare. Il lavoro non manca e la sua bravura l’aveva già portato a collaborare in pieno conflitto con le Acciaierie Ansaldo di Cornigliano per le quali disegna e progetta la comunicazione degli impianti. Sono immagini “grandiose” che ben si sposano con l’epoca che sta per fiorire in Italia con l’avvento del fascismo e della retorica imperiale.

Nel 1921 si trasferisce definitivamente a Milano dove inizia una collaborazione con il Cotonificio Bernocchi(una delle aziende tessili più importanti d’Italia) alternando la produzione di manifesti pubblicitari ai disegni per i tessuti. Sono anni di intensa attività per aziende come Campari, Fiat, Montecatini per le quali cura a volte l’immagine nelle Fiere Internazionali e a volte la comunicazione. Le architetture però sono quasi sempre effimere, perché anche se lavora con Baldessari, Figini-Pollini, Terragni (per il quale disegna i decori della Casa del Fascio di Como), i suoi lavori sono legati alle Grandi Esposizioni e di tutto ciò rimangono solo i disegni progettuali e le foto nei vari archivi. Tra le tantissime opere di decorazione rimangono però le sei mappe delle città d’Italia ancora presenti alla Stazione Centrale di Milano negli spazi attualmente occupati dalla libreria Feltrinelli. La Seconda Guerra Mondiale sconvolge il mondo e Nizzoli, che all’inizio degli Anni ’40 viene chiamato da Sinisgalli a occuparsi della comunicazione di Olivetti, in parallelo dipinge delle “Guernica” all’italiana. Tra scene di bombardamenti e vittime della guerra trova il tempo di concentrarsi sul disegno industriale dei prodotti di calcolo e scrittura meccanica dell’Olivetti. Disegna anche il logo che per tutti gli Anni Cinquanta e Sessanta accompagnerà la produzione olivettiana.

La nuova vita creativa di Nizzoli lo consacrerà come il designer e architetto (insieme a Giuseppe Beccio) che nel 1950 crea la Lettera22 di Olivetti; la macchina per scrivere usata dai reporter di guerra per la sua robustezza e leggerezza oltre che da una schiera di scrittori e giornalisti che ne celebreranno il disegno innovativo e funzionale. Decine di premi dal Compasso d’Oro all’inserimento nella collezione permanente del MoMa di New York completeranno il lavoro di Nizzoli che vede realizzare anche dei progetti di architettura come l’edifico in viaClerici a Milano per gli uffici Olivetti o vari edifici per impiegati a Ivrea oltre al palazzo degli Uffici dell’ENI a San Donato Milanese. I disegni raccolti dal Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma mostrano un periodo di nuova energia progettuale con forme esagonali che sono alla base dei nuovi modelli di macchine da scrivere e che si trovano negli edifici progettati. La comunicazione di Olivetti si arricchisce di meravigliosi manifesti come quello per la Lexikon che sembrano la naturale estensione di un periodo molto prolifico e che stabiliscono anche un tono di voce per la comunicazione futura sviluppata da Pintori. Progetta copertine per riviste dove inserisce anche il suo nuovo stile pittorico che a ben vedere è lontano anni luce da quello appreso all’inizio del secolo osservando i secessionisti viennesi. Un percorso particolarmente ricco di cambi di rotta e intuizioni creative che dovrebbero far riflettere le generazioni contemporanee di creativi che verticalizzano il proprio lavoro pensando che il cambio di media sia un salto creativo laterale enorme quando invece, secondo me, si tratta soltanto del passaggio da una comunicazione analogica a una digitale.

Courtesy by: Heinz Waibl: alle radici della comunicazione visiva italiana collezione Salce, beni culturali (CSAC) Centro Studi e Archivio della comunicazione Università di Parma.

Leggi l’articolo su Touchpoint di Febbraio | 2023 n° 01

Nello scorso numero di Touchpoint Magazine, abbiamo parlato di un’epoca e di un personaggio, Franco Mosca che nel ‘38 decide di emigrare in Argentina. Mosca era stato stretto collaboratore e credo socio di Gino Boccasile nelle varie attività di pubblicitario. Boccasile è stata una grande figura dal punto di vista artistico, ma a differenza di altri che comunque hanno lavorato alla propaganda di regime durante l’epoca fascista e che poi si sono allontanati, lui è stato un’irriducibile penna prestata convintamente fino alla fine della Repubblica di Salò.

Ma vediamo qual è stato il tratto distintivo di un personaggio alquanto controverso. Boccasile nasce nel centro di Bari nel 1901 e la prima giovinezza dell’artista è segnata da un episodio drammatico, la perdita di un occhio a causa di uno schizzo di calce viva. Alla morte del padre, Boccasile si trasferisce a Milano e come tutti all’inizio fatica per farsi largo tra i vari artisti presenti in città. Inizia a collaborare con lo studio grafico di Achille Luciano Mauzan e comincia a disegnare anche figurini e modelli d’abiti da donna. Il suo stile personalissimo ottiene un buon riscontro da parte del pubblico femminile decretando il successo delle vetrine che espongono i suoi lavori. La notorietà lo porta a illustrare per la prima edizione della Fiera del Levante una serie di cartoline per commemorare l’avvenimento. Segue un periodo in cui si muove tra Buenos Aires e Parigi fino a quando nel 1932 insieme all’amico Francesco Aloi apre una agenzia pubblicitaria, la ACTA (Azienda Commerciale Tecnico-Artistica). Il tratto distintivo elaborato con i figurini di moda lo portano a collaborare con varie riviste di moda e di costume dell’epoca diventando ancora più famoso per essere l’artefice di più di settanta copertine per la rivista Signorine Grandi Firme, che termina la pubblicazione nel ’38. La rivista era diretta da Dino Segre “Pitigrilli” e in quell’anno venne venduta alla Mondadori dove venne trasformata in rotocalco da Cesare Zavattini che all’epoca era il Direttore editoriale della casa editrice.

Come Franco Mosca nei suoi disegni femminili, Boccasile propone un tipo di donna florida e procace, solare e mediterranea, utile all’immagine positiva che il regime vuole propagandare. Insomma, un Vargas all’italiana con vestiti aderenti che rivestono forme tondeggianti e abbondanti come richiedeva la moda dell’epoca. Poi l’Italia entra in guerra e Boccasile mette il suo talento al servizio del regime per la propaganda bellica. I primi messaggi sono piuttosto allineati con gli stili di altri artisti che per conto di altri regimi celebrano la forza e la grandezza del proprio regime: chi a Est chi a Ovest o a Nord delle Alpi. Tutti impegnati a sostenere la giusta causa della “propria” idea rispetto a quelle degli altri. Citando De Gregori e la sua bellissima canzone “Il cuoco di Salò” – “che qui si fa l’Italia e si muore, dalla parte sbagliata, in una grande giornata si muore” -, Boccasile sceglie di stare dalla parte che lo ha affascinato per tutta la vita e interpreta il messaggio della RSI che si fa violento non solo per i contenuti ma per la convinzione che non cambia fino agli ultimi giorni della Repubblica di Salò dove viene nominato tenente della 29 Divisione Granatieri delle SS italiane e continua incessantemente a produrre manifesti che celebrano il regime fascista repubblicano e la fedeltà all’alleanza con la Germania. Nei suoi lavori ci sono molti luoghi comuni a volte di una banalità sconvolgente sia per la matrice razzista prevedibilissima sia per la superficialità del messaggio. In piena guerra civile Boccasile non ammorbidisce le sue posizioni politiche ma anzi le radicalizza. I suoi manifesti parlano da soli: “nessuna pietà per traditori e ribelli”, “resistenza armata all’invasore anglo- americano unico mezzo per riscattare l’onore dell’Italia infangato dal tradimento” (da Wikipedia). Si dice che il disegnatore abbia lavorato fino all’ultimo, con i militi della SS italiana che facevano la guardia intorno alla stanza in cui elaborava i suoi progetti.

I suoi sono messaggi di terrore illustrati con forza e incisività e se potessimo estraniarci dal contesto in cui vennero progettati potremmo anche definirli di assoluta efficacia. La faccia del tedesco sorridente che allunga la mano destra per stringerla all’osservatore italiano mentre con la sinistra si tocca il cuore, fa venire i brividi ancora oggi sapendo quello che è successo in quegli anni alla popolazione civile che si è trovata in mezzo a quella guerra (in)civile. Alla liberazione, Boccasile viene accusato di collaborazionismo e poi assolto per non aver commesso reati… non come Albert Speere, l’architetto di Hitler, che avrebbe potuto cavarsela allo stesso modo ma venne ritenuto colpevole non per i progetti ideati ma per lo sfruttamento in schiavitù dei prigionieri e condannato a vent’anni di reclusione nel carcere di Spandau. Boccasile poco dopo la fine del conflitto fatica un po’ a rientrare nel mondo della pubblicità, ma dopo neanche un anno è di nuovo attivo e suoi disegni invadono nuovamente i muri con le pubblicità di quei giorni. Lavora per i Profumi Paglieri, lo shampoo Tricofilina, il Formaggino Mio, l’assicurazione RAS ma soprattutto ritorna a disegnare le figure femminili per Sette dove ripropone una nuova versione femminile di “la signorina Sette”. Continua la carriera di pittore e illustratore illustrando “Il Decamerone” che non porterà a termine per la morte prematura, conseguenza di una pleurite, a soli cinquant’anni.

Di lui e di quell’epoca tragica rimangono vari manifesti catalogati e archiviati dal Museo Salce e scambiati nelle varie aste dove trovano ancora nostalgici acquirenti sempre ben disposti a collezionarli. Con Salce, Gros e Seneca, Boccasile rappresenta un modello di stile di un’epoca che si esaurirà con l’arrivo della fotografia e dei primi “grafici” degli Anni ’50. Rimane come importante testimonianza di uno stile che tra le due guerre presentava un modello visivo di bellezza tipicamente mediterraneo che non ha avuto eredi dopo l’evento traumatico della Seconda Guerra Mondiale e che anzi ha facilitato l’abbandono di una retorica estetica appartenente a un mondo ormai da dimenticare.


Courtesy by: Museo Salce, Cambi Aste; Bolaffi Aste, Collezione privata.


Leggi l’articolo su Touchpoint di Dicembre – Gennaio | 2022 – 2023 n° 10

Le informazioni su uno dei grandi protagonisti del secolo scorso della cartellonistica e della pubblicità a cavallo tra gli Anni ’30 e gli Anni ’60 sono piuttosto scarse. Mi è venuto in soccorso un riassunto fatto da Heinz Waibl nel libro “Alle radici della comunicazione visiva italiana”. Un’importante testimonianza che copre una lacuna informativa, visto che nemmeno Wikipedia riesce a dare informazioni esaurienti. Nato a Biella nel 1910, Franco Mosca esordisce come pittore futurista a Milano alla fine degli Anni ’20 e nel 1930 sempre a Milano diventa allievo di Aldo Carpi; fa parte del Gruppo Perseo ed entra in contatto con Graziano Ghiringhelli e la Galleria “Il Milione”. Come tanti altri pittori, grazie alla sua capacità artistica, diventa allievo di Marcello Dudovich e si inserisce un po’ alla volta nel settore pubblicitario. Nel 1934 diventa Direttore Artistico degli Stabilimenti Grafici Ripalta e successivamente si unisce a Gino Boccasile per progettare e realizzare campagne pubblicitarie. Qui la biografia di Mosca fa un salto temporale passando direttamente agli Anni ’50 e descrivendo l’attività di Mosca come espatriato in Argentina dal 1938 fino a quando, nel 1950, ritorna in Italia.

In Argentina si dedica alla progettazione di scenografie, manifesti, copertine di libri e dischi, illustrazioni per giornali e riviste ma di tutto questo lavoro non ci sono testimonianze visive. Quando lascia l’Italia per l’Argentina nel 1938, Mosca aveva ventotto anni e già si sentiva in Europa il vento dei grandi drammi innescati dalle politiche espansionistiche tedesche. Può essere che Mosca sia partito alla volta di Buenos Aires per sottrarsi a una probabile chiamata alle armi in caso di conflitto o forse perché non condivideva il pensiero politico del suo socio Boccasile che fu uno dei pittori e pubblicitari più attivi nella propaganda di regime. Autore di tanti manifesti anche durante la RSI, tra i quali quello celeberrimo con il soldato inglese che si porta la mano all’orecchio dal titolo “Taci il nemico ti ascolta”.

Tornando allo stile di Mosca, mi sembra che non subisca grandi cambiamenti dopo il lungo periodo sudamericano anche perché le illustrazioni di figure femminili degli Anni Trenta già erano un omaggio alle pin-up americane e allo stile illustrato che si rifaceva ai grandi americani come Norman Rockwell oltre che alle copertine dei rotocalchi di moda d’oltreoceano.

Quando rientra in Italia, la sua fama e un’innata capacità artistica lo portano a firmare il primo calendario Piaggio per la Vespa e per ben cinque anni illustrerà l’Italia procace delle bellezze italiche accanto alla Vespa con sullo sfondo varie città italiane e internazionali. Lo stile un po’ ingenuo delle sue immagini viene riprodotto su cartoline e depliant fino a giungere sotto forma di figurine come regalo con i fustini di detersivi per lavatrici che agli inizi del boom economico erano così familiari nelle caseitaliane.Mosca continua a disegnare il Calendario fino al 1954, fedele alla propria linea stilistica, senza troppa evoluzione grafica. Dal 1955 le sue pin-up cederanno il posto alle fotografie di modelle che diventeranno poi la scelta definitiva dell’azienda. Dal 1955 al 1977 è Presidente dell’AIAP Associazione Italiana Artisti Pubblicitari; presso il Centro di Documentazione sul Progetto Grafico di AIAP sono conservati i lavori frutto di una donazione dell’ex- Presidente AIAP Valeriano Piozzi, composti da una serie di prove colore al torchio delle famose pin-up per marchi famosi come Fiat, Piaggio, San Pellegrino, Motta.
Da “sguardi su Arona” di Vanessa Mineo, scopro che Mosca “per trent’anni ha soggiornato ad Arona con la moglie Elsa, in un appartamento sul lungolago, dirimpetto al Castello dei Borromeo di Angera, gremito di opere d’arte, di libri e di testimonianze dei suoi successi” e nella città affacciata sul lago “i coniugi colti, deliziosi e gentilissimi conversatori, erano assai conosciuti e benvoluti”. Per Arona, da loro scelta come città d’adozione per le bellezze paesaggistiche, Mosca disegnò il logo dell’associazione gemellaggi della località.

Lo stile sviluppato da Mosca trae origine da uno dei suoi maestri, Dudovich, ma si libera formalmente quasi subito dall’estetica della cartellonistica degli Anni Venti e non si conforma in modo rigido allo stile degli Anni Trenta austero e imperiale/ coloniale; cerca invece attraverso il colore e la semplice rappresentazione di volti sorridenti, il miglior compromesso possibile tra la pubblicità e l’epoca prebellica. Negli Anni ’50, Mosca dà fondo a tutto il suo ottimismo estetico mettendo in scena un mondo positivo e ricco di nuova energia aggiungendo qua e là qualche tocco originale prima di essere in qualche modo superato dall’avventodella fotografia.

Un pittore iperrealista che ha saputo cogliere da buon pubblicitario i cambiamenti dei costumi di una intera nazione con uno sguardo genuino e immediato proprio come una buona pasta al ragù alla bolognese o se preferite alla “biellese”.

Photos courtesy by: Centro di Documentazione sul Progetto Grafico di AIAP Collezione Salce, Beni Culturali


Leggi l’articolo su Touchpoint di Novembre | 2022 n° 09

È nato prima il pittore o il pubblicitario? Ci sarebbe da scomodare Albe Steiner e una delle sue tante acute osservazioni fatte durante uno dei suoi discorsi di presentazione del corso per grafici alla Società Umanitaria di Milano nel 1968. Nell’anno in cui tutte le definizioni venivano contestate, Steiner cercava di mettere ordine tra le varie categorie da un punto di vista “sindacale”, spiegando che il grafico (nella sua versione tecnica e pubblicitaria) era una definizione recente mentre prima del 1938 si preferiva parlare di bozzettisti. Secondo Steiner, questi a loro volta, erano dei pittori come Cappiello, Sepo, Sinopico, Dudovich (quasi tutti emigrati in Francia dove avevano assimilato molto della pittura francese). Oltre a questi che arrivavano dalla pittura, sempre secondo Steiner, altri come Depero, Nizzoli, Cesari arrivavano dall’Accademia d’Arte e facevano più gli illustratori che i grafici.

L’osservazione di Steiner trova ampio riscontro nella vita professionale e artistica di uno dei pittori citati tra gli artisti emigrati a Parigi. Severo Pozzati in arte “Sepo”, nato a Comacchio, parte da Bologna per Parigi nel 1920, per un “breve soggiorno”, assieme all’amico Alessandro Cervellati e ci rimarrà fino al 1957. Pozzati aveva alle spalle una formazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna dove si era diplomato come scultore nel 1913. Inizia la sua attività come pittore partecipando a varie mostre e conoscendo tra gli altri Giorgio Morandi.

La sua pittura ripropone in linea di massima lo stile delle proprie opere plastiche fatte di volumi fortemente definiti, paesaggi essenziali, pochi colori. Il rimando è alla tradizione pittorica italiana trecentesca e quattrocentesca e ai grandi artisti come Paolo Uccello, Piero della Francesca, Masaccio e in particolare Giotto.

Quando arriva a Parigi, dove non ha contatti, cerca di lavorare come pittore ma si rende ben presto conto di non poter vivere della propria arte e così si vede costretto a ritornare nel mondo della pubblicità riprendendo
la collaborazione con l’agenzia italiana Maga, che proprio quell’anno aveva aperto anche a Parigi. Pur lavorando nel campo della grafica pubblicitaria dal 1917, e sempre con la stessa agenzia, è solo nel 1923 che riesce a firmare il suo primo manifesto (tutti i precedenti erano anonimi, come spesso accadeva). Per il suo “Le clos de postillon”, affiche per una ditta di vini, Severo Pozzati adotta lo pseudonimo di Sepo (acronimo del proprio nome) che i francesi pronunceranno “Sepó” e che egli conserverà per il resto della propria carriera. Carriera che a partire da questo momento si evolverà brillantemente e lo porterà a divenire nel ventennio successivo uno dei più quotati cartellonisti pubblicitari di Francia e Italia.
I primi manifesti risentono palesemente dell’influenza di Leonetto Cappiello (quello del Diavoletto per Campari) che all’epoca era il punto di riferimento per molti cartellonisti: colori piatti, grafica essenziale, punto prospettico dal basso verso l’alto. Iniziano anche le contaminazioni del cubismo e delle nuove avanguardie nella grafica, dove i caratteri cominciano a dialogare creativamente con le immagini.

Frequenta i più importanti artisti e intellettuali che all’epoca risiedevano a Parigi: Picasso, Braques, Valadon, Cocteau e altri esponenti dell’avanguardia internazionale e mantiene stretti legami con Filippo de Pisis e il gruppo de Les Italiens de Paris.

Nel ’32 decide di aprire, a Parigi, una sua agenzia di pubblicità, l’Idea, e con essa crea alcuni di quelli che resteranno tra i manifesti più celebri della sua intera carriera: in particolare sono da citare il manifesto per le camicie da sera Noveltex (1933), per le confezioni Tortonese (1934), per il panettone Motta (1934) e per le sigarette Anic (1938).

Come la maggior parte degli artisti durante il ventennio partecipa alla creazione di opere commissionate dal regime di Mussolini; nel 1933, in occasione della commemorazione della Marcia su Roma gli viene commissionata un’enorme tela di 120 metri quadrati raffigurante Benito Mussolini. Tale dipinto viene posizionato nella sala Wagram di Parigi, luogo dove si tiene la manifestazione in presenza delle autorità italiane giunte in Francia per l’evento. Nel 1940, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia, Pozzati che non aveva mai rinunciato alla cittadinanza italiana, viene arrestato come tutti gli italiani che ricoprivano cariche importanti. Rilasciato dopo quaranta giorni dal campo di prigionia di Le Vernet ritorna in Italia ma dopo poco è di nuovo a Parigi dove si sposa con la francese Alphonsine Debruil, che diverrà sua collaboratrice. Durante l’occupazione nazista di Parigi si rifiuta di lavorare per la committenza tedesca e cerca di lavorare di nascosto per i vecchi clienti.

Gli anni dell’immediato dopoguerra contraddistinguono la vita di Pozzati con eventi in forte contrasto: in particolare il 1948 che, se da un lato vede la Biennale di Venezia dedicargli uno spazio, dall’altro è anche l’anno della prematura morte della moglie. In generale, comunque, con la ripresa economica del Dopoguerra anche la pubblicità riconquista il proprio mercato. Pozzati riesce a riprendere a pieno ritmo il proprio lavoro e alla fine degli anni Quaranta realizza ancora alcuni di quelli che resteranno tra i suoi manifesti più celebri, in particolare quello per la mostarda Vert-Pré (1949) raffigurante un bue macellato. I cartelloni pubblicitari
di questo periodo sono caratterizzati da un abbandono delle stilizzazioni rigide e dei fondi scuri, a favore del progressivo impiego di figure più fantasiose e colori primari accesi. Nel 1957 Pozzati decide di fare ritorno in Italia, a Bologna, dopo 38 anni passati in Francia. Nel 1959 viene incaricato di istituire una Scuola d’Arte Pubblicitaria, dedicata alla memoria del fratello Mario, morto nel 1947. Fatica però a inserirsi in un ambiente da lui ritenuto estraneo e così preferisce ritornare a occuparsi di pittura lasciando definitivamente il mondo della pubblicità. Si dedica quindi alla pittura e alla scultura fino all’età di 86 anni quando si spegne nel 1983 a Bologna. Pozzati pittore o pubblicitario? Sepo è consacrato alla storia come uno dei più grandi creatori di pubblicità, forse secondo soltanto a Cappiello, però è anche riuscito, dopo aver abbandonato la pubblicità, a trasferire il suo stile pulito e sintetico di cartellonista, nella pittura, liberando le opere pittoriche da tutte le zavorre estetiche delle epoche precedenti con dei risultati estetici di grande valore.

Leggi l’articolo su Touchpoint Ottobre | 2022 | n°08

Qualche tempo fa durante una delle tante iniziative milanesi del Milano Graphic Festival ho visitato lo studio di Giancarlo Iliprandi e sono rimasto colpito dai lavori conservati del grande maestro grafico scomparso da qualche anno ma anche dalla “cura” con cui sono stati fatti i lavori di ristrutturazione dello studio mantenendo inalterati gli oggetti ai loro posti così come i vari lavori esposti appesi alle pareti. Non ho percepito nessun “effetto museo” ma un grande amore per la persona e il lavoro di Giancarlo curato da Monica Fumagalli Iliprandi che gli è stata accanto come compagna di vita e professionale per ventiquattro anni. Un periodo abbastanza esteso che ha permesso a Monica di incontrare molti dei protagonisti del design grafico del periodo d’oro degli anni ’60 del secolo scorso e che grazie alla testimonianza della mia intervistata, mi hanno permesso di inquadrare meglio il lavoro enorme di Giancarlo. Nel bel palazzo progettato da Gio Ponti, dove hanno sede lo studio e l’Associazione, mi sono trovato immerso in una quantità incredibile di stimoli e informazioni; progetti grafici e di design, illustrazioni, raccolte di oggetti frutto di tanti viaggi, molte immagini legate ai vari sport che Iliprandi ha praticato.

Tutto questo accomunato da un fil rouge che a me è sembrato nascere da una disciplina rigorosa che accomuna il mondo dello sport con quello del lavoro, della ricerca estetica con il superamento dei limiti nella ricerca artistica. La biografia di Iliprandi è ricca di scelte coraggiose come quella di lasciare la Facoltà di Medicina dopo tre anni nello stesso corso di Umberto Veronesi per iscriversi all’Accademia di Brera; scelta che gli permise di studiare pittura per accedere al corso quadriennale completato con successo per continuare, sempre a Brera, con un altro corso quadriennale di scenografia. Una formazione artistica ampia innestata su quella precedente alla Scuola Tedesca di Milano che sicuramente gli ha consentito di avere una disciplina analitica e razionale che troviamo nel continuo approccio di “catalogazione” del suo lavoro attraverso dei diari strutturati come una mappa lasciata ai posteri perché nulla venga smarrito del suo percorso creativo.

Ci sono molte pubblicazioni che raccontano il suo percorso artistico che meriterebbe di essere rivisto e riletto alla luce della contemporaneità di alcuni suoi messaggi. Ci sono i lavori “commerciali” frutto di alcune collaborazioni con aziende come Cucine Rossana dove Iliprandi ha creato una lunghissima serie di prodotti grafici bellissimi ma dove ha lasciato anche una traccia tangibile dialogando con l’azienda e progettando una e vera propria novità di arredamento: la cucina Isola il cui prototipo Arcipelago venne esposto al MoMa di New York durante la mostra The New Domestic Landscape.


Ci sono i lavori dove si vede l’impegno civico e il pensiero indipendente dell’artista volto a mantenere sempre la propria individualità e libertà riassunta in un notevole poster dal titolo: “Non mi avrete mai”. A un tratto, durante l’intervista, Monica apre un cassetto di uno schedario e compare un piccolo tesoro: una tavola di legno con l’originale di un lavoro realizzato a fine anni ‘60 per un poster per la liberalizzazione della contraccezione femminile; ci sono tante piccole bamboline giocattolo di plastica, tutte uguali e incollate una accanto all’altra. In alto una parola con un carattere bold e maiuscolo: “BASTA” in basso quasi in dimensione naturale una pillola con accanto la scritta “basta una pillola”. Un messaggio diretto, un manifesto pirata nato in un anno in cui in Italia la contraccezione era ancora vietata e che diventerà manifesto ufficiale soltanto nel ’74 a opera dell’Associazione per l’Educazione Demografica. Il lavoro di Iliprandi è impossibile da riassumere in questo poco spazio ma un po’ di righe le merita sicuramente il rapporto di Giancarlo con lo sport; è stato maestro di Kendo e di Judo ma anche ottimo sciatore e velista. Tante coppe e foto di attività sportive sono allineate nel suo studio ma il pretesto sportivo è servito a Iliprandi per allargare il suo raggio d’azione artistico alla fotografia. Ci sono delle sue foto scattateall’idroscalo per i Mondiali di sci nautico dove il nostro protagonista si è posizionato alla base della piattaforma galleggiante del trampolino per fare delle foto dinamiche dei salti. Da questo amore per la fotografia d’azione e lo sport nasce la rivista Scinautico che per alcuni anni diventò un laboratorio visivo sia per il formato quadrato sia per i contenuti. C’è poi Iliprandi viaggiatore e “ambasciatore”.

Nel ’49, venne ammesso al Salzburg Seminar in American Studies per tenere alcune letture sull’arte contemporanea in Italia. Nel ’51 rappresentò l’Accademia di Brera a Berlino per uno scambio con l’HBK tedesca e dal ’66 rappresentò il nascente Art Directors Club Milano (di cui fu uno dei fondatori). La padronanza del tedesco lo poneva in grado di avere una apertura verso il mondo del Nord fatto anche di regole e schemi di impaginazione che mescolandosi con la formazione pittorica e scenografica produrrà risultati estetici al tempo stesso rigorosi ma pieni di energia colorata. Ci sono poi i meravigliosi acquerelli dei suoi touareg e dei sui viaggi africani, c’è una cultura del viaggio che ci fa apprezzare la capacità di saper cogliere le sfumature di lingue a noi “straniere” come il tedesco e la sua “poesia” per dirla con le parole di una lettera di accompagnamento all’art director del Corriere della Sera per una copertina illustrata per La Lettura, citando Goethe in tedesco.
E poi ci sono quantità di segni e disegni grafici che si applicano a una altra grande passione di Giancarlo, quella per la serigrafia: un’arte che lavora per sottrazione dove devi pensare subito per colori e superfici da
riempire e poi immaginarti il risultato stratificato una volta finito di stampare.

Non riesco a immaginare quanto tempo Iliprandi abbia passato al tavolo del suo studio per produrre tutto questo ma ho come la sensazione che sia meno di quello che uno si aspetterebbe; me lo vedo di più in
giro con un cahier da riempire di disegni, testi e spunti creativi e non come ormai siamo costretti dalla routine grafico-creativa dietro a un computer. Solo così si spiega la mole di scritti e di osservazioni che vanno al di là della professione di grafico. Giancarlo, insomma, da quel poco che ho potuto capire, mi è sembrato un artista “totale” capace di trattare con le immagini grafiche e gli scritti che le accompagnano argomenti diversissimi, senza vincoli o barriere e senza essere costretto a ripetere un proprio stile; insomma uno che giustamente ci ha lasciato scritto: “Non mi avrete mai”.

UN SENTITO RINGRAZIAMENTO A MONICA PER IL TEMPO DEDICATOMI, LA GENTILEZZA E LA RICCHEZZA DI INFORMAZIONI SUL LAVORO DI GIANCARLO.

Leggi l’articolo su Touchpoint Settembre | 2022 | n°07