Quando ho iniziato questa rubrica grazie all’amico Andrea Crocioni non immaginavo neanche lontanamente dove mi avrebbe portato la ricerca e l’approfondimento della storia del “visual design” italiano del periodo magico degli anni del boom. Lo dico perché ho peccato di presunzione pensando di “conoscere” i padrifondatori di questa meravigliosa disciplina artistica, mentre scrivendo e cercando tracce tra i lavori grafici ho scoperto percorsi culturali o incroci artistici con architetti, artisti e registi che non conoscevo. Storie di vita e interessi che vanno al di là del semplice amore per la grafica. Un esempio?

Michele Provinciali, del quale si è scritto molto perché ha lasciato dietro di sé tracce meravigliose di lavori fatti per aziende dell’arredamento importanti come Kartell o Zanotta o semplicemente perché come docente lo troviamo negli anni ’80 all’ISIA di Urbino o per un meritatissimo Compasso d’Oro ADI alla carriera.

Una cosa che mi ha colpito di Provinciali è la sua formazione umanistica; è vero che una laurea in Storia dell’Arte a Urbino e una borsa di studio per frequentare l’Institute of Design di Chicago (il New Bauhaus fondato da Moholy-Nagy) ti mettono sulla buona strada ma il suo interesse per l’arte lo ha portato a essere editore e a organizzare veree proprie spedizioni archeologiche in Iran (allora Persia) negli anni in cui Pasolini girava Il fiore delle Mille e una notte e nella cittadina di Bam veniva girato Il Deserto dei Tartari. Questa aspirazione ad andare oltre i soliti schemi, per uno che conosceva benissimo gli schemi prospettici raffaelleschi (una tesi su Raffaello) mi è sembrato di vederla in alcunilavori grafici per Kartell, per Verbena o nel meraviglioso depliant di quattro metri per Imago. Parlo di composizioni che usano gli elementi fotografici, apparentemente, in modo libero ma in realtà riconducibili a un rigore formale che fa degli spazi bianchi della pagina il canvas sul quale posizionare oggetti e colori. Piccole opere d’arte paragonabili a una certa arte americana degli Anni Sessanta dove artisti come Jasper Johns mettevano sulle tele degli oggetti come la celeberrima scopa che pennella la tela.

Quando dicevo che non si finisce mai di scoprire il talento e i percorsi personali di questi artisti mi riferisco anche alla varietà di interventi eseguiti insieme ad architetti, designer o registi; nel caso di Provinciali ho scoperto che aveva curato i titoli della versione internazionale del film di Antonioni, Zabriskie Point.

Così mi sono andato a cercare quello che oggi viene classificato come un film “cult” ma era stato criticato a suo tempo definendo l’età del regista non in linea con quella dei giovani protagonisti del film oltre a essere ritenuto un’operazione “borghese”. Tutto questo, fa sorridere oggi, ma basta rivedere il film per capire quanto in realtà fosse “giovane” Antonioni e in grado di trasmettere una contemporaneità con quei primi piani sui ragazzi che discutono nelle scene iniziali che sembrano rubati simulando la macchina a spalla come cinquant’anni più tardi ci siamo abituati a vedere nelle serie Netflix. Un film innovativo che per esserlo anche dal punto di vista grafico aveva utilizzato per i titoli un carattere disegnato da Ernst Friz, credo per Linotype, che si chiamava “quadrata” ripreso da Letraset e usato fino agli Anni ’90 e anche dopo in infinite varianti per tutto ciò che doveva sembrare tecnologico e moderno. Provinciali ha lasciato anche copertine per Domus, Stile Industria e Abitare, fatte di ritagli e collage che sembrano delle opere in grado di esprimere qualche cosa che va al di là della grafica dell’epoca, creando contaminazioni eleganti che ricordano l’arte povera di Burri o della Accardi. Insomma, un viaggio che non smette di stupire e che mi auguro di approfondire magari avendo modo di registrare le testimonianze di coloro che hanno avuto modo di conoscere di persona questi grandi artisti. Vorrei ringraziare Irene Tovaglia che mi ha contattato dopo l’articolo apparso nella rubrica dove si parlava di suo padre, Pino Tovaglia e mi scuso per tempo con tutti coloro (figli, eredi, fondazioni) che a volte sono impossibili da contattare per mancanza di un sistema di raccolta organico dei vari materiali e dei riferimenti personali. Questa rubrica nasce dalla passione e dalla voglia di far luce su quanto di bello c’è nel nostro DNA grafico e spero che possa diventare “illuminante” per andare a riscoprire persone e lavori spesso troppo relegati in fondo a cassetti che andrebbero digitalizzati e messi a disposizione del maggior numero di appassionati possibile.

Touch Point Magazine – Luglio 2021 | N°06

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