è difficile esprimere un giudizio morale (e non lo farò) sull’operato di un vero genio della caricatura, pubblicitario cartellonista e interprete internazionale di Vanity Fair America, solo per citare alcune delle varie attività artistiche svolte durante il “ventennio” del secolo scorso e di conseguenza immerso in un’epoca che solo a posteriori siamo riusciti forse a decifrare.
In una bellissima analisi retrospettiva del lavoro di Garretto, firmata da Steven Heller per la rivista Print, il ritratto “ricostruito” attraverso un’intervista all’anziano artista nella sua dimora monegasca è garbato e approfondito quanto basta per comprendere la persona e il suo lavoro a tutto tondo. Partiamo con qualche nota biografica: Paolo Federico Garretto nasce a Napoli nel 1903 da Vito, di origini siciliane, e dalla ginevrina Silvia Wiechmann. Studiò architettura a Roma ma si dedicò, fin da studente, alla grafica iniziando a lavorare come caricaturista e come pittore pubblicitario a Londra e nel 1930 a Parigi dove si distinse come corrispondente e disegnatore per la Gazzetta del Popolo. Le sue caricature attirarono, sempre negli Anni ‘30, le attenzioni di alcuni giornali e riviste straniere, di cui divenne collaboratore. Fu una delle principali firme di Vanity Fair, The New Yorker e Fortune.
Trasferitosi negli Stati Uniti fu costretto a rientrare in Italia, a seguito dello scoppio della guerra. Nella bella rilettura di Garretto da parte di Heller, il ritratto che emerge è quello di un giovane idealista che per ragioni familiari non aveva potuto partecipare all’attività politica fino a quando un fatto piuttosto cruento non lo costrinse ad aderire al nascente movimento fascista, attratto anche dalla visione “estetica”.
Infatti, si trovò a ridisegnare e a proporre delle divise che avrebbero dovuto migliorare lo stile per così dire “castigato” dall’uso di un solo colore: il nero!
Quando ci si trova dentro alla storia che cambia si possono anche mutare le proprie idee e dopo aver attivamente partecipato all’illustrazione della sua epoca dal punto di vista del regime se ne distaccò rifiutando l’ordine da parte dei nazisti di eseguire caricature di politici americani e alleati. Questo gli costò la deportazione e la prigionia in Ungheria fino a quando non riuscì a fuggire riparando grazie a degli amici milanesi a Parigi. Veniamo all’artista che durante gli anni ‘20 e ‘30 era considerato un gigante internazionale della pubblicità e dell’editoria avvicinato per creatività a Cassandre, prolifico quanto Jean Carlu e brillante come Miguel Covarrubias. Le sue caricature in stile déco riuscivano con la tecnica dell’aerografo a catturare l’essenza dei tratti distintivi dei suoi personaggi composti da elementi grafici e geometrici essenziali. Negli Stati Uniti negli anni ’30, la sua fama era legata alle continue apparizioni su Time, Vogue, The New Yorker e soprattutto all’identificazione del suo segno con lo stile di Vanity Fair fino al cambio editoriale del 1938. Nel 1983 quando il nuovo editore, Condé Nast, cercò di rilanciare la testata, sembrò quasi naturale tentare un esperimento di recupero dell’essenza della rivista coinvolgendo vari artisti e cercando di imitare lo stile originale di Garretto ma i tempi erano di fatto cambiati e l’operazione sembrò niente di più di un’impresa nostalgica lontana dai canoni estetici dell’epoca predigitale.
Heller, nella sua preziosissima corrispondenza con l’anziano artista a Montecarlo ci racconta che gli è stato raccontato che prima di laurearsi in architettura a Roma, Garretto aveva seguito il padre a Milano dove faceva il professore e nel capoluogo lombardo aveva frequentato l’Accademia di Brera. Garretto ricorda dei problemi avuti con i suoi professori che non vedevano di buon occhio il suo “strano” modo di interpretare la realtà essendo lui un amante del cubismo e del futurismo (siamo alla fine della Prima Guerra Mondiale). L’attenzione per l’avant-garde di Garretto si vede bene in alcune sue opere e nel modo di rappresentare i suoi personaggi. Garretto fin da bambino disegna caricature ma la sua fama di caricaturista nasce quasi in modo fortuito come lui stesso racconta. Disegnava i suoi ritratti sulle tovagliette del bar; tra questi un ritratto di Pirandello e uno di Marinetti catturarono l’attenzione di Orio Vergani, un giornalista e un poeta che gli chiese di farli su carta e di presentarli a un giornale romano e da lì l’hobby si trasformò in lavoro vero e proprio. Nel ’27 a Parigi incontra il direttore dell’agenzia di pubblicità Dorland Advertising che gli consiglia di recarsi a Londra dove c’erano molte riviste che potevano aver bisogno di immagini a colori. È così che si ritrova a lavorare per The Illustrated London News, The Graphic, The Bystander e The Tatler. Le caricature di Chamberlain o di Mussolini sono di quest’epoca e nella rivista The Graphic erano attribuite a un nuovo talento “francese”. Essere pubblicato in Inghilterra corrispondeva per l’epoca a essere considerato uno dei migliori disegnatori a livello mondiale. I manifesti pubblicitari non si sottraggono a questa sintesi e così vediamo che l’eleganza del manifesto per Lord viene anche accentuato dal cappello in testa a una figura rarefatta dove però il segno del naso e dell’occhio (o monocolo) sono le iniziali stesse della parola Lord.
Quello che mi attrae nell’opera di Garretto è anche la sua forza espressiva e la sua capacità nella semplificazione delle forme, di trovare i tratti salienti e caratteristici delle persone ritratte.
Per esempio, il Mussolini “robot” con pochissimi segni riesce a essere ispirato alla visione futuristica di Metropolis ma nello stesso tempo, accenna alla rappresentazione militare del soggetto, dove l’elmetto di guerra calcato in testa nelle immagini retoriche del Duce, viene reinterpretato in calotta robotica. La sua attività di pubblicitario e cartellonista si snoda in parallelo, come spesso succedeva agli interpreti del secolo scorso, alla sua attività di artista per l’editoria; di lui sono rimasti celebri alcuni manifesti per Lambretta in Italia ma soprattutto tante campagne pubblicitarie per il mercato francese e per brand quali Air France. Per l’eleganza e i richiami al periodo magico del futurismo e del déco, credo sia doveroso ricordarlo in chiave attuale come suggerisce Heller e magari apprezzare nuovamente la sintesi espressiva e la pulizia formale delle sue opere. Giusto per sottolineare l’importanza della sua opera anche come pubblicitario, nel 1956 la Federazione Italiana della Pubblicità gli conferì la medaglia d’oro.
Courtesy of Print Magazine by Steven Heller and Alle radici della comunicazione visiva by Heinz Waibl.