Quanti di voi conoscono Pino Tovaglia? Pochi. Come pochi certamente sapranno che è stato uno dei soci fondatori dell’Art Directors Club Milano nonché Presidente nel ’68 oltre che docente in varie scuole milanesi: dalla Scuola superiore d’Arte del Castello Sforzesco alla Scuola Politecnica di Design (SPD) e anche professore al corso dell’Umanitaria.
Wikipedia gli dedica appena una “paginetta” ma Corraini Editore con un bellissimo libro curato da Massimo Pitis ha fatto molto di meglio.
Quando ci si imbatte in personaggi poco o meno celebrati dei “soliti” istrionici graphic designer che hanno popolato mostre, convegni, fiere campionarie o biennali d’arte tra gli anni ’50 e ’60 in Italia, si ha quasi la sensazione di scoprire dei piccoli tesori meno consumati dei grandi classici dell’epoca ma si ha anche la sensazione di sbirciare dalle finestre le vite private di persone che hanno intrecciato il lavoro e le relazioni personali con rapporti di stima e di amicizia con colleghi con i quali sono stai condivisi percorsi professionali in un’epoca in cui tutti concorrevano per migliorare se possibile il contesto nel quale lavoravano.
Le cose che non si trovano nei libri infatti si trovano parlando con chi ha conosciuto e lavorato con questi grandi e a volte, riservati personaggi: uno su tutti Leonardo Sinisgalli, conosciuto come il poeta ingegnere che sulle pagine di Graphis (mitica rivista di cultura grafica che dagli anni trenta del secolo scorso fino a metà degli anni ’80 ha celebrato i migliori talenti della storia internazionale), parla del lavoro dell’amico Tovaglia e delle sue opere grafiche oltre che della mostra
che in quell’anno (1961) l’artista stava presentando a Milano. Una mostra di disegni e acquarelli presentati da un testo dell’amico Raffello Baldini che sottolinea la precisione del punto di equilibrio raggiunto tra luce e ombra come tra simbolismo e caricatura. Tra le attività di quell’anno una collaborazione con l’architetto Zanuso per l’Esposizione Internazionale di Torino dove sperimenta delle nuove tecniche della riproduzione dell’immagine sulle grandi pareti progettate dall’architetto.
Il contributo di Tovaglia all’arte grafica italiana del Dopoguerra è enorme sempre in equilibrio tra pulizia formale delle superfici e immagini dal tono asciutto ma comunque empatico.
Una simpatia dichiarata per il “calligramma” come nei lavori per Alfa Romeo o Finmeccanica e una traccia di caratteri in libertà di chiara matrice futurista compaiono nei suoi lavori. A volte sono dei segni “pesanti” come nei simboli di Capogrossi o nei caratteri bold della fonderia Novarese dove per un po’ è stato collaboratore artistico. In altre parole un artista poliedrico dalle tante energie creative espresse anche in progetti con la nascente arte televisiva e le collaborazioni con lo Studio Pagot e Bruno Bozzetto.
Per Gillo Dorfles in una bella intervista su Tovaglia di Massimo Pitis, gli artisti grafici di quell’epoca hanno rappresentato un momento breve ma di estrema intelligenza che, sempre secondo Dorfles, oggi (era il 2005) non esiste più.
La natura riservata del personaggio non ha avuto la giusta celebrità; il lavoro di Tovaglia meriterebbe di essere riscoperto per l’efficacia delle sue immagini, a volte in bianco nero, quasi sempre dotate di humor con un impatto superiore a tante opere a colori dei giorni nostri; altri artisti grafici della stessa epoca hanno avuto un richiamo maggiore forse perché, secondo Dorfles, “squilibravano” la produzione grafica mentre nel lavoro di Tovaglia c’è molto equilibrio e non c’è traccia dello “svizzerismo” portato all’eccesso da rappresentanti della scuola svizzera come Max Huber. Artisticamente positivo, ha fatto della poesia visiva creando un alfabeto- scultura con la parola amore che reinventa la sequenza delle lettere incastrandole una nell’altra esposta permanentemente a Strasburgo davanti al Consiglio d’Europa. Guardandola non si può non pensare alle opere di Alighiero Boetti o alle sculture Love di Robert Indiana ma quello che rende unico il percorso di Pino Tovaglia è dovuto anche alla grande apertura multidisciplinare dell’epoca e alla collaborazione culturale e artistica tra grafici, artisti, architetti e poeti.
Oggi tutto questo sembra nostalgicamente lontano ma nella ricerca che sto facendo alla fonte (mai termine fu più appropriato) del nostro lavoro non vedo nostalgia per i bei tempi passati ma una grande energia che ci siamo (noi italiani) persi per strada perché invece di valorizzare la nostra matrice culturale e artistica ci siamo messi a scimmiottare la comunicazione internazionale dove nella migliore delle ipotesi, si confonde il termine “globale” con una standardizzazione dei percorsi creativi che producono soltanto cloni di immagini preconfezionate distruggendo il valore della sperimentazione e della ricerca e relegando la figura del “grafico” a semplice esecutore di idee altrui.
Sarebbe auspicabile a un certo punto, iniziare, come stanno facendo alcune aziende lungimiranti del design degli interni
(es: Cassina con Giò Ponti) un percorso di riscoperta di quanto di unico e bello è stato fatto riproponendolo in un’ottica contemporanea uno stile originale e ridefinendo la nostra unicità creativa. Magari con un po’ di sano orgoglio italico.
Touch Point Magazine – Maggio 2021 | N°04